martedì 24 aprile 2007

Fiducia in se stessi

Accade non di rado che ci siano persone che patiscono e lamentano scarsa stima e fiducia in se stesse e che ne rivendicano il pronto recupero o rafforzamento, come se quella auspicata (più autostima e più fiducia in sè) fosse condizione ovvia e scontata, un diritto. In realtà è probabile che chi non trova fiducia in se stesso stia cercando, più o meno consapevolmente, più validi presupposti e nuovo fondamento alla propria fiducia e stima di sé. Spesso l'individuo nel suo procedere si affida e aderisce ad altro da sé da cui si lascia definire e portare: ruoli, senso comune, convalida esterna, assunzione di modalità gradite ai più ed applaudite, conoscenze e modi di pensare assorbiti e ripetuti. Chi non trova fiducia in se stesso è spesso un individuo che si è limitato a riprodurre qualcosa di già confezionato, a inseguire e a misurarsi più col consenso e la considerazione d'altri che col proprio sguardo, a fronteggiare e a superare prove e esami esterni, ad andar di corsa verso traguardi già segnati, più che a dare spazio e impegno a ricerca e a verifiche proprie. Con una maturità di facciata, pur cercando, in affanno, di stare al passo con gli altri, sente di stentare. Sempre più si acuisce in lui il senso di inadeguatezza, subordinando la considerazione di sè, del proprio valore al paragone con altri, facendo degli altri ancora e sempre più il suo metro di misura, il suo modello. L'individuo, pur sfiduciato circa sè, paradossalmente insiste nella pretesa di colmare subito il senso di sfiducia, come se questo del non accordarsi fiducia e stima fosse un limite ingiustificato o una anomalia. In fondo chiude gli occhi, non già sulla sua scarsa fiducia, ma sulle ragioni vere, di inconsistenza propria che la giustificano. Facendo riferimento e conto su modi comuni di procedere, che in fondo non richiedono se non attestati di conformità al normale e parvenze, preso dall’urgenza di non perdere terreno rispetto ad altri, non vede la distanza che lo separa da una vera maturità e dal possesso conquista di qualcosa di suo e di degno, capace di fargli meritare sì dentro se stesso senso di fiducia e di stima. Per una fiducia in se stesso davvero fondata e non costruita sul niente o sull'apparente, è necessario all'individuo qualcosa di riconosciuto da sè come originale e consistente, capace di farlo stare sulle sue gambe, di fargli compiere passi in direzioni scelte, comprese e sentite, in autonomia, quindi poco importa se non condivise o non apprezzate dagli altri, con progettualità propria, con intima persuasione e passione, con senso di unità e di credo condiviso con se stesso. L'individuo che non trova fiducia in se stesso ignora in realtà ciò di cui è portatore, ancora non dispone di sé, ancora ignora il senso di ciò che sperimenta interiormente, ancora non ha scoperto l'affidabilità della propria guida interna, profonda, ancora non dispone della propria creatività, della capacità di generare pensiero proprio, di riconoscere progettualità propria e di tradurla, sostenerla. Onestamente potrebbe ammettere di non avere una propria visione di sè e della vita, un proprio discorso, malgrado si sia sforzato di trovare argomenti e risposte, onestamente potrebbe riconoscere di non essere ancora capace di guidarsi attraverso se stesso. Queste ammissioni risulterebbero certo ingrate, dolorose e però anche finalmente capaci di motivare l'impegno di scoperta dentro sè e di conquista del nuovo, di ciò che manca. L'individuo si lamenta di non avere sicurezza e fiducia in sé, ma in fondo insiste nella pretesa di essere già maturamente compiuto, in molti casi più per imbarazzo verso gli altri o per orgoglio, che per reale persuasione. In alcuni casi potrebbe essersi davvero convinto di possederne di pensiero e di argomenti originali e propri, senza riconoscere di essersi sempre, nella sostanza, riempito d'altro, di aver fatto uso di sapere preso in prestito, di idee, anche se "intelligentemente" rimaneggiate e rifinite, mai scaturite per intero da sé e perciò mai concepite e comprese dall'origine e per intero.La stima di se stessi, rivendicata come fosse ovvia e dovuta, manca dunque spesso del suo valido motivo e fondamento. Nulla è più sciocco o deleterio che voler ottenere o addirittura pompare la fiducia in se stessi, se ancora mancano i suoi fondamenti, distraendosi dal compito e non cogliendo il richiamo interiore a lavorare su se stessi, facendosi aiutare all'occorenza, per formare le basi della stima e della fiducia in se stessi, solide e infine davvero gratificanti.  Non è un caso infatti che l'interiorità, che la parte di sè più acuta, intelligente e consapevole, quella profonda, quando ancora mancano le condizioni di vera crescita e di vera maturità necessarie e desiderabili, tolga e neghi percezione di sicurezza interna e di fiducia e tenga ferma questa posizione, malgrado le lagne. Non lo fa per deficit o per malattia, lo fa per amore di verità, per saggezza e per consegnare finalmente il pungolo e il compito di porre riparo a quel vuoto di sè e di propria sostanza e creatività, per spingere finalmente a generarla e a costruirla. Il profondo non crea mai situazioni di sofferenza e di crisi inutilmente o sciaguratamente.

Attacchi di panico. Qualche spunto di riflessione

L'attacco di panico è la soluzione estrema, l'arma più potente ed incisiva che l'inconscio sa impiegare, non per fare danno, non sconsideratamente, non per dissestare e basta, ma per perseguire fin dall'inizio uno scopo, per dare forma, pur drammaticamente, a uno scenario nuovo, per far intendere subito, per intima e sconvolgente esperienza, qualcosa di importante, anzi di fondamentale. Le iniziative dell'inconscio sono sempre profondamente pensate e concepite, sensatamente finalizzate. Capita infatti che la lontananza e la separazione da se stessi, l'ignoranza di se stessi, interiormente non passino inosservate e che non vengano accettate nel proprio profondo. Ciò che si dava per scontato, che l'interiorità seguisse e assecondasse, che fosse garantito sostegno vitale e continuità al procedere abituale, è improvvisamente messo in forse. Capita che l'inconscio prenda decisa iniziativa e sopravvento, che dia modo di sperimentare nella forma della vertigine emotiva, del senso di totale smarrimento e di angosciosa fragilità, fino alla paura che tutto si spezzi, fino all'angoscia di morire, che la vita, in quella forma abituale e conosciuta, non sia da dentro garantita. Non solo, ma in quel momento di stacco improvviso dalla continuità del fare e del procedere abituale, l'inconscio fa sperimentare cosa significhi, per chi non abbia cercato legame con se stesso, con la propria interiorità, essere separati da tutto, soli, in presenza di sè soltanto, legati al proprio intimo soltanto. Abituati a stare adesi ad altro e a farsi tutt'uno con altro, quasi a negare la percezione di sè, abituati a disperdersi nel fare, a rinviare sine die la sosta, il momento del fermarsi in aderenza e in ascolto sincero e attento della propria interiorità, ecco che nel momento dell'improvviso e inaspettato stacco dal fuori e dell'affaccio sul dentro, si è colti da sorpresa, persi, sgomenti. Questo dell'essere catapultati improvvisamente nell'intimo delle proprie sensazioni, del veder costretto il proprio sguardo sul dentro sè, del sentire bruscamente incatenate la preoccupazione e l'apprensione a sè e al proprio stare in vita, è l'esperienza, lo scenario nuovo che si spalanca nell'attacco di panico. La propria interiorità, da gran tempo trascinata nel fare, nell'inseguire, nel pensare senza aderenza al proprio sentire vero, da gran tempo sottovalutata, resa nelle intenzioni docile e conciliante, muta all'occorrenza, dà all'improvviso (ma non tanto, perchè precedenti segnali a starci attenti ce ne sono stati a bizzeffe) segnali vigorosi, impone i tempi, detta i contenuti dell'esperienza. Sensazioni sconquassanti di smarrimento, di pericolo, di insicurezza totali, impetuose. Parrebbero maligne, così oscure, terribili, travolgenti. Anche se la presa dell'inconscio è così decisa e quasi brutale, tutte queste improvvise impetuose sensazioni e tutto il drammatico nuovo corso d'esperienza vogliono spingere a vedere, a prendere coscienza di ciò che si è nell'incontro con se stessi: smarriti, perchè mai abituati a cercarsi, sempre inclini a evadere, a stare fuori e "assenti". I temutissimi attacchi di panico vogliono, nelle intenzioni dell'inconscio, segnare una frattura, una discontinuità decisa, vogliono essere un inizio. Potrebbero, se raccolto e ben inteso il potente richiamo, essere davvero l'inizio della scoperta di sè, della volontà di avvicinarsi a sè, della presa di coscienza dell'importanza di non essere stranieri dentro se stessi, altro da se stessi, appendici di un essere, il proprio essere, che non si conosce, con cui si rischia di convivere fino alla fine senza incontro, senza ascolto e senza scoperta, senza trarne, della propria esistenza, le ragioni vere, i quesiti e le potenzialità. Un inizio dunque, anche se traumatico e quasi devastante. Se l'inconscio non agisse all'occorrenza con tale fermezza, durezza e asprezza nel dire all'individuo della sua lontananza e non familiarità con se stesso, della sua mancanza di contatto e di radice dentro sè, della sua sostanziale inconsistenza, avrebbe qualche possibilità di interromperne la marcia solita e l'inerzia del pensiero, di coinvolgerlo e di farsi ascoltare? Intendiamoci, la risposta più comune all'attacco di panico è di considerarlo un evento anomalo, uno sciagurato impedimento alla prosecuzione solita, una iattura che pare togliere la possibiltà di insistere nel modo di vivere solito, nell'attaccamento a abitudini, a cose, al fare. Tanta offerta di cura è proprio rivolta a trattare simili esperienze come disturbo e patologia da sanare e correggere, con farmaci o con consigli, prescrizioni, esercizi volti a superare paure considerate irrazionali. L'ignoranza del significato degli eventi interiori non ha limiti e confini. Capita però che ci siano individui che riconoscono nell'esperienza dell'attacco di panico e nel seguito interno che lascia, un segnale importante, che avvertono la necessità di una riflessione approfondita, di una ricerca finalmente di incontro e di comprensione di se stessi. Ho visto iniziare esperienze analitiche su queste basi e premesse. Come l'inconscio, in simili casi, era stato perentorio e drastico nel segnare, attraverso gli attacchi di panico, una frattura drammatica rispetto al solito procedere (frattura segnata dagli attacchi e dal seguito di forte insicurezza, allarme e apprensione che avevano lasciato), così è stato pronto a dare, fin dall'inizio del cammino analitico, attraverso i sogni, indicazioni lucidissime e guida sicura sul percorso da seguire, sulle scoperte da fare, sul lavoro necessario per ridare all'individuo finalmente consapevolezza vera, vicinanza e unità con se stesso, conoscenza di ciò che gli apparteneva. Se prima c'era solo la rincorsa di un che di normale e di paragonabile ad altri, di concepito e di tenuto in ordine col ragionamento, che spesso e in genere non sa vedere, ma solo organizzare e imitare, dopo la brusca interferenza del profondo, che ha costretto l'individuo a prendersi cura di sè, a spostare l'attenzione su di sè, è potuto iniziare un nuovo cammino e un divenire, del tutto inattesi e inconcepibili prima, ma possibili. Se all'inizio all'individuo, sotto le bordate del profondo, era parso che la sua salvezza stesse unicamente nel far cessare quell'assalto, nella libertà di proseguire indisturbato nei modi soliti e verso le mete conosciute, dopo, a confronto aperto e approfondito, gli è risultato via via sempre più chiaro che ciò che aveva a disposizione prima della crisi e che tanto aveva cercato di difendere era poca cosa e impropria, che tanto e tutto di sè gli mancava, che un cambiamento radicale, a partire dal capire ciò che di sè stava facendo, si era reso non solo utile, ma necessario, pena il rischio di non vivere, di non far vivere se stesso.

Il rapporto con se stessi: unità e dialogo o contrapposizione e rottura. Il senso della crisi

Il rapporto con la propria interiorità è spesso ostacolato da incomprensioni e da pregiudizi, che non appaiono tali a chi ne è artefice e soggetto. C'è un pregiudizio ben radicato e molto diffuso che vuole che ci sia netta separazione e opposizione tra ciò che di noi, denominato razionale, è giudicato assennato, affidabile ed equilibrato e ciò, che invece definito "irrazionale" (comprende l'esperienza emotiva e ciò che, fuori dal controllo della volontà e da cosciente determinazione, ci coinvolge, ci smuove da dentro e spesso ci sorprende) è considerato affatto lucido oltre che parziale e poco o nulla attendibile. Se poi il corso dell'esperienza interiore assume carattere aspro e sofferto, tortuoso o lacerante, facilmente si sviluppa da parte di chi ne è portatore ostracismo, rifiuto verso questa parte di sè, oltre che allarme come dinnanzi a qualcosa che non funziona correttamente, che rivela disordine, malattia o, se il giudizio è benevolo, stato di debolezza, di usura o di bisogno ( il cosiddetto  "esaurimento" ). L'interiorità, la parte di noi più intima e profonda, in realtà più che reagire come passivo oggetto di logorio a qualche fattore nocivo che la fiacca o che l'affligge, che ne compromette il sano equilibrio, cerca spesso con determinazione e con intraprendenza di creare, per fondati motivi, una discontinuità sensibile e ben avvertibile, fortemente coinvolgente. Il profondo non subisce, ma genera lo stato di crisi, non per caso, non inutilmente, non per patologica tendenza. Se ben raccolti, ascoltati e compresi quelli dell'interiorità sono segnali intelligenti, che aiutano a cogliere in profondità, con finezza di sensibilità e con precisione di sguardo questioni decisive che riguardano il proprio essere e il proprio modo di procedere. All'individuo spesso sfugge, talvolta poco importa vedere nitidamente quale sia la qualità o sostanza vera del modo di vivere e di procedere dentro cui è immerso e cui si affida. Gli può rimanere ignoto o può mantenere debole e sfumata la percezione del costo pagato in termini di assenza di contenuto proprio della propria vita, di mancata rispondenza vera e profonda a sè di ciò che sostiene e che esprime. Può preferire non vedere o sottovalutare aspetti di sè non marginali di immaturità, di dipendenza da altri o da altro per sostenersi e per dirigersi, di opaca conoscenza di sè, del perchè e del senso di ciò che fa e che porta avanti, di rinuncia o di mancanza di una progettualità propria, forse mai cercata con forza e con insistenza dentro se stesso. Non è raro infatti che le scelte e il procedere si siano ispirati più al seguire la corrente, facendosi dettare dal senso comune e prevalente gli appuntamenti e le tappe della propria vita, all'afferrare ciò che comunemente veniva inseguito e considerato degno di interesse, al portare a sè e al riempirsi di qualcosa comunque, piuttosto che al cercare dentro sè con impegno e con pazienza significati, scopi voluti e mete desiderate e all'investire su di sè. Volentieri il raggiungimento di qualcosa di proprio è stato equivocato e scambiato col fare proprio qualcosa di stabile e di rassicurante, soprattutto di prontamente accessibile ( come ad esempio il consolidare e rendere certo un legame, il mettere su casa con qualcuno, il mettere al mondo un figlio come fosse creazione propria, il raggiungere e l'appagarsi di una sistemazione lavorativa, a prescindere da senso e finalità del proprio lavoro ecc.). Poco disponibile a sincere verifiche, non di rado rinunciatario e passivo nella sua parte "alta" e pensante, quella cosiddetta consapevole e razionale, l'individuo ha però dentro se stesso e sue anche altra vita e sensibilità, altre risorse. Se altrove, nel suo profondo, le cose appaiono diversamente, si può pretendere che dentro tutto debba rimanere immobile e composto? Se nel profondo l'individuo ha capacità di vedere in modo penetrante cosa accade, cosa sta facendo di se stesso, se ha presente cosa di sè giace inespresso, se sa a quale destino anonimo e perdente, al di là delle apparenze, si sta consegnando, se profondamente ha capacità di sollevare la questione e di dettare una svolta e, laddove ci fosse ascolto e disponibilità nei "piani alti", pure capacità di guidare e di alimentare un serio processo di verifica, di riscoperta di tutto, di radicale e di profonda trasformazione....si può pretendere che il profondo mandi giù e non prenda posizione? Se il profondo ha vicine, consapevoli e scottanti tali verità e potenzialità di cambiamento si può pretendere che taccia, che rimanga con le mani in mano? La crisi, il malessere che monta, che ostacola, che a volte sembra paralizzare l'intero procedere solito dell'esperienza, può nascere da simili fondamenti e argomenti (ne ho solo esemplificati alcuni) tutt'altro che irrilevanti, irragionevoli o assurdi. Trattare pregiudizialmente come patologia l'intimo tormento e sommovimento è come prendere per matto quel briciolo e più di sana capacità di vedere e di luce che ci si porta dentro. Il mio lavoro di psicoterapeuta, di analista mi ha permesso e mi permette di constatare che rispondere alla crisi con disponibilità di ascolto e con impegno di ricerca consente all'individuo di verificare che la crisi, che tanto gli era parsa all'inizio incomprensibile e funesta, non si era aperta per caso o inutilmente, che il suo intento era costruttivo, che dal profondo, dove si era generata e dove era stata voluta, è stato ed è possibile nel corso dell'analisi (imparando ad accogliere e a raccogliere riflessivamente il significato e la proposta del sentire, facendo proprie la guida e l'intelligenza dei sogni) trarre tutti gli elementi che servono per capire e per costruire il nuovo, il proprio. L'interiorità spesso non è remissiva e rinunciataria; se strattona, se spinge, se disturba, se si mette di traverso sa il fatto suo. Va infine detto che non si può pretendere di far evolvere positivamente e costruttivamente la crisi, secondo il suo verso e scopo, in un attimo. Per conoscersi davvero, per rivisitare la propria vita, per riscoprire il proprio essere, per riconoscere e per rafforzare finalmente, dietro ispirazione e guida profonde, visione, pensiero e progetto propri, che non siano il solito inseguire e imitare modelli dati, che non siano ripetere cose sentite dire e prese in prestito da altri o da altro, per rimettersi davvero sulle proprie gambe, ci vuole lavoro, ricerca attenta, impegno e tempo. Il rapporto con se stessi, il dialogo con la propria interiorità vanno saggiati, scoperti, costruiti, coltivati con passione e con serietà, fatti crescere con pazienza e con tenacia. Così facendo le cose possono cambiare e radicalmente.

domenica 15 aprile 2007

I sogni

 Da oltre vent'anni nella mia attività di psicoterapeuta, di analista, quotidianamente mi occupo di sogni. Il sogno è attività pensante, la risorsa intima più importante capace di restituire all'individuo la capacità di capire, di capire se stesso. La modalità prevalente e più conosciuta dall'individuo di capire se stesso è quella che fa leva sul ragionamento. Il pensiero razionale, anche quello che ha parvenza di pensiero riflessivo, cioè dettato dall'esperienza intima, in realtà, anzichè ascoltarla e raccogliere, le parla sopra, le sovrappone spiegazioni.
Convalidate dall'uso comune o prese in prestito da qualche autorevole fonte, simili spiegazioni o interpretazioni riescono a dare a chi ne fa uso pallida persuasione di capire l‘esperienza, di vedere dentro sé, di conoscere. Dico pallida perché, al di là di una sensazione d'ordine, di controllo, di dominio sull'esperienza e sui suoi ignoti, il pensiero razionale non produce granché. A molti credo sia capitato di osservare questo: un processo di spiegazione razionale che riguardi se stessi, tanto risulta a volte coerente, all'apparenza convincente ed esauriente quanto sterile. Venuti col ragionamento a capo del problema ci si sente soddisfatti, ma si avverte di non aver compiuto un passo avanti, di non aver compreso per davvero nulla, soprattutto si sente di non ritrovare unità e contatto tra ciò che si è argomentato e detto e l'esperienza intima. Altra cosa è comprendere e dire, sapendo cosa si sta dicendo, vedendo dentro di sé, cercando e trovando dentro il vissuto il fondamento di quel compreso, la sua anima, la sua voce. I sogni conducono a questo: a vedere con i nostri occhi, a riconoscere significati che illuminano, che chiariscono noi stessi, ciò che sentiamo, di cui facciamo intima esperienza. La mia esperienza di analista mi ha dato e mi dà prova che dal profondo parte la ricerca di visione, di comprensione del senso. Dal profondo l'invito, l'occasione, la spinta continua e ostinata a rompere la condizione di passività o di chiusura della mente nel già pensato, nel pensiero dato, a superare l'inconsapevolezza di noi stessi. I sogni ci avvicinano come nient'altro a noi stessi. Il cammino analitico è segnato dai sogni.
Ogni sogno è un momento di ricerca che si serve di strumenti avanzatissimi di pensiero. Mettersi al passo col pensiero dell'inconscio è lavoro assai impegnativo, ma gratificante, perché capace finalmente di restituire la visione nitida e fondata, il pensiero di cui manchiamo, il nostro , dove pensare e avere consapevolezza sono in vera comunione e sintonia , dove ciò che diciamo e ciò che intimamente sperimentiamo concordano tra loro, sono l'uno la voce dell'altro. Per capire un sogno bisogna lavorare e molto. Ogni dettaglio del sogno è parte costitutiva del messaggio, di un messaggio affatto prevedibile e scontato, mai copia di qualcos'altro. Compito dell'analista è di restituire all'altro ciò che appartiene all'altro, il suo pensiero. Se l'analista mettesse addosso all'altro, all'esperienza dell'altro, ai suoi sogni qualcosa di già pensato, di costruito, di preso in prestito da presunte teorie certe e da spiegazioni già pronte, valide per tutto, tradirebbe il suo mandato, la sua funzione di aiutare l'altro a reggere il confronto con se stesso, a cercare ciò che gli appartiene, che si sta facendo avanti in lui dal suo profondo, che vuole essere compreso. L'analista, se facesse ricorso e favorisse l’uso di interpretazioni pronte, di idee già pensate, rischierebbe di chiudere l'altro a se stesso, di non aiutarlo ad attingere a se stesso.
E’ importante trattare bene i sogni , non parlargli sopra, ma imparare ad ascoltarli, a farsi guidare da loro. Per ogni sogno si può lavorare (assieme) anche per sedute intere, per più sedute. L'importante è non piegare il sogno al preconcetto, a qualche interpretazione pronta, che sicuramente farebbero la felicità di chi vuole uscire in fretta dalla tensione dell'attesa e dell'ignoto, ma che ammazzerebbero la creatività e il pensiero.

Ancora sui sogni: come intendere e avvicinare questa preziosa e insostituibile risorsa interiore

 I sogni sono per l'individuo il veicolo fondamentale della conoscenza di sé. L'inconscio attraverso i sogni introduce alla visione interna, alla visione e alla scoperta di significato degli accadimenti interiori, che assai facilmente sfuggono all'individuo, rispetto ai quali il suo pensiero abituale e la sua logica sono non solo insufficienti, ma spesso del tutto sordi. L'individuo spesso pensa, cerca di darsi spiegazioni attorno a se stesso, cerca di definire i propri orientamenti senza fondarsi rigorosamente sull'esperienza vissuta e senza concedersi alla propria guida interiore. Nel sentire c'è il luogo degli accadimenti veri, nel sentire e nello svolgimento della vicenda interna, nei vissuti si delinea, si definisce ciò che l'individuo è, come prende parte all'esperienza, cosa sta emergendo di significativo, che lo vincola e lo apre a un confronto con se stesso, a un approfondimento. La trama del sentire, assunta, accolta e rispettata nella sua integrità e interezza, è per l'individuo quanto di più sensato, intelligente e fondante pensiero e sapere intelligente su se stesso, possa trovare.  Nel suo sentire l'individuo può trovare la completezza della materia su cui lavorare, nel suo sentire è tracciata la strada da seguire, lì il mezzo per conoscere. Spesso l'individuo è lontano, scisso, separato da questo piano fondamentale della sua esperienza, dell'esperienza interiore, del vissuto. Spesso, senza piedi per terra, senza aderenza e legame con ciò che sente, se ne sta a mezz'aria impegnato a tenere unita una visione di se stesso che si confonde con la visione concreta dei fatti e delle cose. Rispetto alla propria esperienza interiore l'individuo è spesso assestato in posizione o di pretesa circa ciò che dovrebbe convenientemente accadergli di sentire, casomai secondo leggi di "normalità", oppure di diffidenza, di paura, se non di ostilità. Capita infatti che già pensi e tratti, ancor prima di confrontarsi apertamente con questa parte di sé, come eccessivo o assurdo fino a patologico ciò che, sgradito o tormentoso o incalzante, si faccia sentire e si imponga in lui, complicandogli il cammino. In sostanza se il sentire si accorda, in apparenza, con le attese e dà manforte alle pretese viene favorevolmente accolto, se dissonante viene vissuto come inquilino sgradito e scomodo, come abusivo da relegare o espellere. Ebbene, in una situazione come questa, dove questione centrale è la distanza, la scissione tra sentire e pensare, tra un sistema di conduzione dell'individuo, che va per i fatti suoi e che non tiene conto, se non marginalmente o con presuntuosa pretesa di primato, di ciò che accade interiormente, i sogni che cosa rappresentano? Se il corso della vicenda interna, se il sentire è solco e humus della ricerca di sé, i sogni sono guida, sono germogli di pensiero riflessivo, perché aprono lo sguardo sul dentro, perché dicono di ciò che accade nel rapporto dell'individuo con se stesso, di ciò che si muove e prende forma, vero e non inventato, nell'esperienza interiore. Sogno dopo sogno l'inconscio orienta, guida, sostiene la ricerca, lo sviluppo della capacità riflessiva, della capacità di visione di sé da parte dell'individuo. I sogni fondano la costruzione di un nuovo rapporto dell'individuo con se stesso, in cui l'individuo tenga fermamente unito ciò che sente e ciò che pensa. Nel corso dell’esperienza analitica gradualmente, attraverso guida e lezione dei sogni, il pensiero dell’individuo cambia pelle da pensiero, nella conoscenza di sé, generico, sostanzialmente astratto, uniforme al già pensato e consensualmente, da pensiero che insensatamente va dove tira il vento del raziocinio, a pensiero fondato, dove ciò che è pensato e detto trova origine, sostegno, alimento e vincolo nel vissuto, nello sperimentato dentro sé. I sogni richiedono, perchè si possa attingere alla loro ricchezza, un lavoro molto attento. Il loro linguaggio, simbolico, si fonda su richiamo diretto o rinvenibile per via associativa a esperienze vissute, a osservazioni in nuce, che l'autore del sogno può raccogliere pazientemente, diligentemente a partire da tutto ciò che compare nel sogno. Tutto nel sogno in forma simbolica dà volto a realtà interne all'individuo, ciò che compare rappresenta il suo e dice di lui. In sede analitica si lavora assieme sul sogno, lo si analizza parte dopo parte, senza trascurare alcun dettaglio, inclusi i vissuti interni all'esperienza del sogno, finché i simboli acquistano luminosità e capacità di dire, di svelare, di mostrare ciò che rappresentano. E' un processo molto graduale. Spesso si pensa che basti raccontare un sogno perché l'esperto, l'analista prontamente e facendo tutto da solo lo interpreti. L'analista, anche se ha via via maturato conoscenza approfondita dell'altro, del rapporto, non può spiattellare interpretazioni pronte sul sogno, non può dire nulla di valido e di attendibile senza lavorarci con scrupolo e senza la partecipazione attiva dell'autore del sogno, che in definitiva deve essere messo nelle condizioni di vedere, di capire, di capirsi attraverso il proprio sogno. Se al sogno venisse imposta, sovrapposta un'interpretazione semplicemente coerente con discorsi o ipotesi già in corsa, il rischio di fraintendere, di vanificare il sogno, di buttare via la sua proposta originale, sarebbe fatale. La nascita e lo sviluppo della conoscenza, della conoscenza di sé dell'individuo in analisi, che è scopo dell'analisi, deve fondarsi sempre su lavoro analitico, su confronto, su ricerca, su scoperta del significato intimo di ciò che si incontra, nel vissuto, nella trama degli eventi interni, nei sogni. L'analista non deve introdurre alcun discorso già fatto e di origine altra. Tutto si crea, tutta la conoscenza di sé dell'individuo deve essere la conoscenza di ciò che si rende visibile, riconoscibile dentro e attraverso l'esperienza, dentro e attraverso i vissuti e i sogni. L'analista deve possedere saldamente lo strumento analitico, la capacità riflessiva, non quella di spiegare ciò che accade con teorie precostituite. Deve possedere la capacità di stare rispettosamente nel cammino di ricerca, sapendo reggere la tensione dell'attesa, sapendo dare e incoraggiare nell'altro  riconoscimento di ciò che si dà nell'esperienza, limitando il discorso a ciò che di volta in volta si rende prossimo, che si può avvicinare, che si rende riconoscibile senza andare oltre. E' la cosa più difficile: stare sul cammino senza pretendere di capire oltre e al di là di ciò che, momento dopo momento, si può vedere, reggendo la tensione dell'incompletezza, del non sapere già, del non sapere subito. Un sapere fondato, verificato passo dopo passo, senza forzature e quadrature o arrotondamenti di comodo, sempre e unicamente legato all'esperienza e a ciò che, lavorato riflessivamente, rende riconoscibile, che non includa apporti di pensiero estranei e altri o innesti. Su queste basi e a queste condizioni si rende fondato e attendibile il sapere, la conoscenza. Non è attendibile viceversa il sapere che si avvale di altro, dell'ausilio o supporto di teorie o di pensiero preso in prestito, seppur da autorevoli fonti o da maestri di nome altisonante; quello comunque inquina e basta. L'individuo in analisi deve poter trovare e dare al mondo il suo e deve poter impiegare lo strumento e il metodo analitico, che come levatrice sappia portare alla luce questo "suo" e non deve incontrare altro che si ficchi in mezzo e copra tutto o sostituisca l'originale. Dalla propria formazione, peraltro sempre in divenire, l'analista deve portare nel rapporto e nel dialogo con l'altro solo il metodo, la capacità riflessiva, la capacità di confrontarsi con rispetto e con grande rigore col nuovo, con l'ignoto.