domenica 12 ottobre 2014

Quando il malessere persiste

Quando al malessere interiore non si dà risposta matura, quando non si dà ascolto e fedele comprensione a ciò che il proprio sentire, che la propria esperienza intima propone e cerca di rendere tangibile e prioritario, quando non si dà assecondamento alla richiesta interiore, che proviene da parte profonda di se stessi, il malessere insiste e persiste. Se la proposta non è recepita, se non trova udienza e se non è fedelmente tradotta e intesa, se anzi è travisata, se si corre a metter pezze per non cambiare nulla, se, ritenendo che nel sentire disagevole ci sia il segno di una insufficienza o di un'incapacità di sentire nel modo giudicato valido e normale, ci si adopera per zittirlo, per eliminarlo come spazzatura o per correggerlo, cosa ci si può aspettare in simili condizioni  se non che il profondo mandi a dire che non si lascia mettere a tacere e manipolare, che la verità la vuole comunque rilanciare, che la spina nel fianco non la vuole togliere, perchè il cambiamento, di consapevolezza e di trasformazione in direzione di se stessi, è di vitale importanza che avvenga? L'inconscio fa persistere il malessere, insiste nel dare segnali d'urgenza e di messaggio non ricevuto. In questi casi facilmente si parlerà, con un'acutezza meritevole d'encomio, di ricadute, di patologia che volge alla cronicizzazione e di altre scempiaggini simili, travestite da sapere scientifico. Capita anche che ci sia chi, provando a fare un lavoro più serio su se stesso, casomai attraverso una psicoterapia, cerca, in verità più allo scopo di debellare il malessere che di ascoltarlo e di aprire a se stesso, qualche spiegazione, in apparenza verosimile e coerente, del perchè del malessere, indagando nella propria vita, particolarmente nel passato, alla ricerca di qualche causa, evento traumatico, condizionamento sfavorevole. Capita che questi a un certo punto dica di aver fatto, attraverso un simile lavoro, passi avanti, di aver capito, di conoscere finalmente le cause dell'ansia e di ciò che interiormente gli era penoso, fatto salvo però che, malgrado questo, continui a sentire incombente o presente quel disagio, che continui non solo a non entrare in sintonia col proprio intimo, col proprio sentire, ma a temerlo. L'affermazione più frequente in simili casi è che ora però si conosce il perchè e che comunque si è imparato a gestire meglio il proprio malessere, a tenerlo a bada. Insomma si è daccapo, il rapporto con parte vitale di sè, col proprio sentire non è mutato, ancora è segnato da lontananza, da fuga e da incomprensione sostanziale. Se si parla di gestione, che altro non è che controllo e contrapposizione, con l'utilizzo di accorgimenti, di commenti, di spiegazioni o di schemi interpretativi calati dall'alto e messi sopra al proprio sentire, significa che si insiste nella presa di distanza, che si permane nell'incapacità di incontro e di ascolto della propria interiorità, di unità con se stessi, di comprensione di parte di sè che dice, che vuol guidare e nutrire la consapevolezza, passo dopo passo, momento dopo momento. Finchè non c'è incontro vero e rispettoso con la propria interiorità, non trattata come meccanismo da spiegare, da regolare e da correggere dall'alto, ma come voce e proposta viva da ascoltare e da comprendere fedelmente, i segnali di urgenza, di malessere insistito permangono e permarranno. Ne va della propria sorte. La nostra vita è occasione unica per aprire gli occhi, non per chiuderli,  per dare "vita" a ciò che ci appartiene profondamente, non per metterci tranquilli in qualche modo, per accodarci al normale. L'inconscio è voce e anima di questo, non è un agitarsi confuso di capricciose istanze, di desideri ingenui e velleitari, non è un deposito di tracce oscure di ricordi molesti. Se non si impara a capire il proprio intimo e profondo, a rispettarlo, a condividerne la proposta, il malessere persisterà, unica voce matura, responsabile e sincera.

martedì 8 luglio 2014

Il peggio sul meglio

Il peggio riversato sul meglio di sé. Credo sia utile parlarne ancora, come ho fatto in molti miei scritti, perché è questione tanto diffusa quanto importante, decisiva. L’esperienza interiore, ciò che propone, non importa se in una forma ardua, impegnativa e sofferta, è risorsa vera, opportunità viva e sensata di  avvicinamento a sé, di scoperta di significati col proprio sguardo, di comprensione intima e fondata, di intelligenza utile, indispensabile come lo è la capacità di conoscersi e di guidarsi, che potrebbe finalmente prendere corpo. Eppure le va sopra troppo spesso il peggio del pregiudizio, dell’impazienza, della pretesa di stare prima di tutto liberi e sgombri da disagi e da pensieri, da impegno di capire e di capirsi, della preoccupazione di non diventare diversi da ciò che il senso comune raccomanda, caldeggia e si arroga di fissare come valido sempre e comunque, cioè normale. Cestinare, liquidare l’esperienza interiore o pretendere di raddrizzarla per renderla "sana" e conciliante, sono pratica personale e pure di “aiuto” professionale assai diffuse, senza capire quanto di prezioso e di intelligente si vuole mandare in discarica o rimettere in riga, per recuperare o salvaguardare cosa? Il riallineamento al gregge, il ritorno al solito, senza bagaglio proprio di consapevolezza e senza  capacità di orientamento, anche se lo si chiama ritorno alla normalità o recupero del benessere. E’ comprensibile che imparare da se stessi, essendo pratica inusuale e strada mai o quasi mai battuta, risulti inizialmente incredibile, anzi che la si ignori. Con impazienza ci si fa bastare qualche acrobazia del ragionamento, spacciandosela come chiarimento e come possesso di idee e ci si rivolge contro parte di sé che, se non è stata e se non sta alle attese, si giudica inutile e dannosa. Conta non farsi rompere le uova nel paniere da richiami e da iniziative interiori, che vengono giudicati senza tanti indugi intemperanze e capricci irrazionali. La protervia con cui si è pronti a bollare come storto, inutile o malfatto, se non patologico (ancor prima che intervenga qualche tecnico che apponga una qualche etichetta diagnostica) ogni proprio sentire che stona e che dissona dal normale celebrato, fa però impressione. Soprattutto, pur senza saperne cogliere senso e gravità,  è atto arrogante di una parte di se stessi, tanto presuntuosa quanto ignara della propria inconsistenza, contro parte di sé che, se si imparasse ad ascoltare e a conoscere, avrebbe tanto da insegnare e da dare.

domenica 29 giugno 2014

Bloccati o zoppi per imparare a camminare

 Sembra maledizione, castigo o disgrazia la sorte cui pare voler piegare il malessere che interiormente blocca, toglie spinta, crea ostacolo o vero e proprio impedimento all'andare, al fare, al libero, disinvolto agire e interagire col mondo esterno. Sembra una sciagura, anzi a chi vive una simile esperienza pare evidente che lo sia e le persone attorno in coro probabilmente gli darebbero conferma. Ansietà, picchi di angoscia e panico, rovelli e labirinti di indecisioni e dubbi, timori, senso di svuoto e perdita di interesse, disagio nel ritrovarsi con se stessi, quasi estranei e irriconoscibili, senso di distacco da un reale (cosiddetto reale, fatto di cose e di situazioni esterne) che comincia a scolorire, ad apparire estraneo, lontano. Ho portato qualche esempio di esperienze interiori non certo facili, vissute spesso come seri intralci, come oscura minaccia, come nemica presenza dentro sè, che pare solo togliere e distruggere. Il senso della vita e del proprio benessere e beneficio sembra dire che si è finiti in un tunnel, precipitati in un pantano, da cui urgerebbe uscire il più in fretta possibile, per non perdersi, per non vedersi emarginare dalla vita, per tornare a respirare e a provar sollievo o sensazioni positive. Eppure spesso, a ben guardare, di sé, a parte la foga di procedere, di non perder colpi, di stare al passo, di non farsi tagliare fuori, di voler ben presenziare e di non far brutte figure con gli altri, c’è poco, anzi nulla di veramente conosciuto e riconosciuto come proprio. Per conoscerlo non si può certo restringere il campo e far leva solo su ragionamenti e petizioni di principio, bisognerebbe respirare a pieni polmoni se stessi, aprire per intero al proprio essere, tener conto del proprio sentire vero senza limitazioni. E’ ben qui che si è inserito il profondo, l’inconscio, l’interiorità viva, che dà tutto il sentire, che ha cominciato o che da tempo insiste nel consegnare un’esperienza interiore tutt’altro che facile. E’ un’esperienza interiore che non dà sostegno, che ormai non dà manforte all’andar via e spediti, al fare per fare, al consueto inseguire quello che, come fan tutti, sembra desiderabile e interessante, adeguato e bello, anzi lo intralcia. La propria interiorità non si fa illudere e abbagliare, non sottovaluta, non chiude un occhio sulla presenza di comportamenti solo imitativi e gregari, non lascia passare la tendenza a far proprio il programma segnato da idee e da aspirazioni comuni come fosse progetto di vita proprio, non chiude un occhio sul non saper nulla di sé. Se l’interiorità, se l’inconscio azzoppa o blocca, è proprio per far sì che si cominci a rendersi conto di come si procede, per far sì che si  impari a vedersi, a non andare a testa bassa, a guardare dentro di sè per capire da cosa si è mossi, quali sono i vincoli e i punti d’appoggio, spesso tirati e offerti  più da fuori che da dentro se stessi, più da regole e persuasioni comuni che da proprie scoperte e convinzioni fondate. Insomma l’inconscio azzoppa perché si prenda coscienza del modo in cui ci si trascina, spesso lontani da sé e senza guida e fondamento propri, perché si impari davvero a camminare, dotandosi di capacità d’orientamento, di scoperta di propri perchè e di proprie mete, di proprio senso dell'agire e del realizzare, di capacità di sostenere e di nutrire di passione, di tenacia e di convincimento, pur, come può accadere, in assenza di conferme e di sostegni esterni, scelte concepite da sè e comprese fin dalla radice, in accordo con se stessi per intero. Sono risposte e condizioni nuove che non si può pretendere di ritrovarsi in tasca già fatte e a pronto uso, devono essere cercate e coltivate. L'inconscio, senza far tanti complimenti, col malessere che blocca, detta la priorità: il dentro e il lavoro su di sè, prima del fuori. Pronto a sostenere la ricerca, a indirizzarla e a nutrirla in modo sostanziale, particolarmente con i sogni, l'inconscio dà occasione di assumere la responsabilità di aprire o meno il cantiere della ricerca (in caso affermativo, procurandosi l'aiuto necessario). In ogni caso l'inconscio non tace il problema, non accetta di lasciar prevalere la ragione dell'andare avanti purchessia e con finta completezza di mezzi su quella della conquista dell'autonomia vera.

giovedì 26 giugno 2014

Le ragioni del malessere

Perché succede, cosa vuole questo malessere interiore, questo tormento? Spesso chi lo vive lo tratta con preoccupazione crescente e con insofferenza. Teme sia, oltre che un ostacolo, una minacciosa presenza. Lo vive come un accidente sfavorevole, una sorta di corpo estraneo, che lavorerebbe contro i propri interessi, pur così interno, intimo, addentro il proprio essere. E' convinzione assai diffusa che il malessere sia provocato o indotto da circostanze e da condizionamenti  sfavorevoli, che sia la manifestazione o la conseguenza di un meccanismo, fisico o psicologico, logoro o guasto. Dirò subito che il malessere interiore, nelle sue diverse possibili espressioni, tutte significative e da comprendere attentamente, è viceversa la manifestazione di una forte, risoluta presa di posizione interna della parte intima e profonda, che non vuol tacere, che vuole che la verità e l'attenzione a se stesso diventino per l'individuo questioni centrali e esigenze prioritarie. Pensa che sia un’anomalia, vuoi la manifestazione di un meccanismo guasto, vuoi la conseguenza di un distorto modo di vedere la realtà e di reagire, vuoi ancora una pena intima indotta da qualcosa, esterno a sè, nocivo, risalente al passato o attuale, chi, pur con diverse spiegazioni circa il presunto "guasto", concepisce la superficie come fosse il tutto. Pensa al guasto e alla necessità della riparazione per la ripresa del normale, chi pensa la modalità solita e presente di esistere e di procedere come l’unica possibile, chi non comprende il malessere interiore come intervento e espressione, non cieca, del profondo. Liquida sbrigativamente il malessere interiore come disturbo e basta, chi pensa che emozioni, vissuti, sentire e vita interiore, che tutto ciò che non è ragionamento e volontà, sia solo un accessorio irrilevante e subalterno, un po’ colorito, ma poco o nulla affidabile quanto a intelligenza e a capacità di dare orientamento. Nel nostro essere il profondo, l'inconscio c’è e non è certo presenza di poco peso e valore. Tutto ciò che accade nel nostro sentire e nel corso della nostra esperienza interiore è governato, in modo mirato e intelligente, dal nostro inconscio, è sua voce, non è affatto casuale, non è semplice risposta automatica, riflessa a situazioni e a stimoli esterni. Che accada di sentire inquietudine, timore e apprensione insistenti e pervasivi, persistente pena, senso di fragilità, di vuoto, di infelicità e quant’altro definito come ansia, depressione o altrimenti, non è frutto del caso, non è  traduzione meccanica di logorio subito, nè sgangherato modo di reagire, non è insana o abnorme risposta, è viceversa lucida e consapevole, ferma e irremovibile espressione di capacità e di volontà interiore e profonda, di una parte non irrilevante di se stessi, di intervenire perché si guardi dentro di sè, nell‘intimo vero, cosa sta accadendo della propria vita, perché non ci siano stasi e assenza di consapevolezza, lontananza da se stessi e passivo adattamento. Basta, con l'aiuto giusto, di chi sappia guidare ad avvicinarsi a se stessi e al proprio mondo interiore,  risolversi a cercare rapporto, ascolto e dialogo con se stessi e col proprio profondo, basta risolversi a dargli voce, a riconoscergli voce, senza squalificarlo in partenza come dannoso, negativo o malato, perché il malessere, perchè l'intimo sentire faccia ben intendere e vedere cosa sa, cosa riesce efficacemente e puntualmente a evidenziare, a far conoscere di se stessi, a smuovere. Basta disporsi, come si è aiutati e incoraggiati a fare dentro una buona esperienza analitica, all’ascolto, aperto e disponibile, senza pregiudizi, alla ricerca del senso piuttosto che del rimedio che spazzi via, con impazienza e ciecamente, tutta l’esperienza interiore disagevole,  per rendersi conto (sempre meglio via via che dialogo e ricerca procedono), che non c’è guasto e meccanismo rotto, che non c’è caos o irrazionalità dentro se stessi, che il malessere non è maledetta sorte o accidente, patologia o altro, ma specchio per vedersi e per capire. E' potente richiamo, invito fermo a lavorare su di sé, a prendere coscienza di come si è e di come si procede, di ciò che manca, che va finalmente costruito, che mai finora è stato cercato e costruito. Non ci sono cause e responsabilità da cercare altrove da se stessi, in altro e in altri, come odiosi impedimenti al proprio star bene, non c'è stupida incapacità di vivere normalmente e felicemente, c'è semmai prima di tutto consapevolezza da trovare, senza sconti e senza equivoci, del proprio stato attuale, verità anche scomode da riconoscere e da non rimpallare. L'inconscio, sia con le tracce vive del sentire sia coi sogni, non tace nulla e cerca l'intimo vero, il senso, non usa nè pregiudizio nè camuffamento. L'inconscio, che richiama in modo così forte l'individuo alla partecipazione al dentro prima che al fuori, esercita una spinta formidabile, che, se saputa comprendere e condividere, offre visione lucida e appassionata, consapevolezza profonda di sè e del proprio da mettere al centro e a fondamento della propria vita. L'inconscio col malessere interiore smuove e turba il quieto vivere per uno scopo riconosciuto nel profondo del proprio essere come irrinunciabile: far vivere se stessi, il proprio potenziale vero. Per realizzare questo scopo, non già in tasca e traducibile in un attimo, come spesso si pretende, è necessaria una graduale e profonda trasformazione. Ci sono fondamenta nuove da gettare, nuovo rapporto da creare pazientemente con se stessi, nuove scoperte, originali e utili, anzi essenziali, da fare dentro sè e col proprio sguardo, ci sono vicinanza al proprio sentire, comprensione intima e unità d’essere con se stessi, mai possedute e mai cercate, da trovare e rafforzare finalmente. Era sufficiente infatti in precedenza, prima della stretta più decisa del malessere, andare per la strada segnata, fare come si usa in genere e in genere si dice, bastava quel riferimento comune, bastava un po’ di ordine mentale regolato dal ragionamento, che chiarisce e oscura contemporaneamente ciò che fa comodo oscurare o che non si comprende, bastava tutto questo per sentirsi a posto e "normali". Capitava in realtà, non raramente, che il proprio sentire complicasse l'esperienza, che inserisse elementi dissonanti, veri richiami per vedere le cose più nitidamente, per non trascurare implicazioni, non certo dettagli insignificanti, ma tutto questo lo si trattava come un inutile rumore di fondo, come fastidiose interferenze di una parte emotiva "irrazionale". Era sufficiente darsi un pò di quieto vivere, di adattamento, bastava variare qualche luogo, abitudine o altro per convincersi che la questione decisiva per il proprio "star bene" fosse solo la scelta delle circostanze e delle persone giuste, delle opzioni esterne che avrebbero cambiato tutto per sè, deciso le proprie fortune in bene o in male. Bastava un pò di allineamento al modello comune, un pò di parvenza di buon funzionamento, di possesso delle cose o delle espressioni ritenute in genere irrinunciabili o da molti apprezzate, non importa se portandosi interiormente mille segnali diversi e incompresi, non importa se senza mai sentirsi davvero su terreno saldo di consapevolezza, su sostegno di desiderio profondo, di corrispondenza con se stessi.  Procedere in quel modo bastava alla parte di sé cosiddetta conscia, ma non bastava di certo alla parte profonda, meno illusa dalle apparenze, meno preoccupata di stare in linea e al passo con la normalità, meno timorosa di perdere quel treno, più preoccupata di non perdere se stessi. Quel che sto dicendo lo dico dopo lunga ricerca e dialogo col profondo, dopo aver fatto cammino di ascolto e di ricerca con chi accompagno da oltre trent’anni nella ricerca di comprensione della radice del perché, del senso e dello scopo del proprio malessere interiore. Quando davvero gli si dà retta, come si fa in una buona esperienza analitica, il profondo prende a dire subito il perché e il senso del malessere. Bisogna ascoltarlo sia dentro il sentire, che il profondo muove e orienta, sia nei sogni. Da subito nei sogni l’inconscio comincia a  far vedere dov’è la ragione del malessere e della crisi, da subito conduce a vedersi allo specchio nel proprio modo d’essere e di procedere, da subito comincia a evidenziare i nodi mai avvicinati, i vuoti, le illusorie verità che non reggono, da subito, con grandi forza e fiducia, apre il cantiere della costruzione del proprio originale modo di essere, di esistere, di pensare e di progettare. E’ un cantiere dove serve fare un lavoro serio e paziente, perché la normalità è maschera o vestito già confezionato che basta indossare, mentre essere individui pensanti di pensiero e di visione propria e coerente con se stessi richiede molto, molto di più e comprensibilmente. Si pensa la psicoterapia e la si pratica spesso come officina di riparazione per tornare normali, per trovare da qualche parte qualche ipotetica causa attuale o preferibilmente remota, che avrebbe ingrippato il meccanismo. Non c’è, per ciò che, pur difficile e sofferto, vive oggi interiormente, da cercare causa o fattore avverso di cui si sia o si sia stati vittime, c’è semmai da comprendere ciò che l’intimo sentire oggi dice e fa vedere di se stessi.  C'è da intendere ciò che la propria interiorità spinge, attraverso sentire e sogni, a formare di consapevolezza, di pensiero proprio e di progetto, che finora sono mancati e che sono prezioso e indispensabile bagaglio, per non perdere davvero scopo e valore della propria vita. So che questa mia lettura del significato della crisi e del malessere interiore, non filosofica o inventata, ma frutto di esperienza e di confronto con l’intima esperienza e sofferenza, di dialogo e di lavoro quotidiano col profondo, non coincide con l‘immediata attesa di molti che vivono disagio interiore, che chiedono, come proprio bene,  prima di tutto l'annullamento del malessere e la normalizzazione, come so che non è omogenea a modi assai frequenti di intendere la cura, il prendersi cura di chi vive simili esperienze interiori. L’atteggiamento curativo, che, in apparenza benevolo e favorevole, cerca il rimedio, che col farmaco vuole sedare o mitigare, che con prescrizioni e suggerimenti vuole riplasmare i comportamenti e le reazioni, abbattere "l'ostacolo" interiore o che va a caccia di ipotetiche cause per costruire una sorta di spiegazione logica del perché del malessere, per tornare a chiudere il cerchio, lasciando tutto, del procedere e del rapporto con se stessi, come prima, rischia, malgrado le buone intenzioni, di diventare una barriera, se non una vera pietra tombale messa sopra una parte di sé intima e profonda, tutt’altro che malintenzionata, certamente non compresa nella sua intenzione e non valorizzata nella sua capacità propositiva. Rischia di perpetuare paura e incomprensione di se stessi, di ciò che vive dentro se stessi, di bloccare sul nascere o di non favorire, come la spinta interiore richiede, un necessario, utilissimo processo di cambiamento, di rinnovamento. Prendersi davvero cura di sè significa aprire a se stessi e scoprire che ciò che di sè si temeva può diventare la fonte, il fondamento della propria salvezza, del proprio vero benessere.

lunedì 2 giugno 2014

A te, che vuoi capirti

Vivere appieno un'esperienza interiore, un'emozione, uno stato d'animo, un vissuto è certamente la base e la premessa per intendere, per capire, rendendoti partecipe, lasciandoti segnare da ciò che senti, condividendolo con la tua interiorità. Il tuo sentire è la base del tuo capire, sentendo fai intima esperienza, tocchi con mano. Se oltre a concederti, a farti tutt'uno e a farti segnare dal tuo sentire, impari a prendere distanza per vedere cosa stai provando, cosa sta prendendo forma nel tuo sentire, cosa stai intimamente sperimentando ( tutto questo lo possiamo chiamare riflessione), ecco che crei una situazione del tutto nuova di rapporto con te, non di fuga, non di pregiudizio, non di scissione tra ciò che pensi e vuoi e ciò che senti, ma viceversa di unità dialogica con te stesso. Il tuo sentire, comprensivo di ciò che chiami ansia ( o d'altro che ti è interiormente disagevole)  è parte di te, è modo vivo della tua interiorità di calarti in qualcosa, per farti vedere, intendere, capire. Se hai un pregiudizio negativo sul tuo sentire, solo perchè è disagevole e in partenza te ne vuoi sbarazzare, considerandolo inutile, immotivato, dannoso, patologico, certamente chiudi a qualsiasi possibilità di dialogo, ti privi di un apporto vitale, che, se sapessi ascoltare e comprendere, potrebbe rivelarsi tutt'altro che inopportuno, inutile o deleterio. Aggiungo che definire, ad esempio,  ansia un'esperienza interiore è spesso un modo sbrigativo di liquidarla. Vivere viceversa quel singolo momento e cercare di vedere con attenzione cosa senti, dandogli il volto che ha compiutamente, con parole che lo descrivono fedelmente, significa valorizzare quell'esperienza, non fare di ogni erba un fascio, rendendola uguale ad altre, banalizzandola. Spesso si è prigionieri dell'idea che l'esperienza interiore disagevole vada prima di tutto combattuta, senza tanti indugi con farmaci o che vada evitata, sminuita, con atteggiamenti di fuga, sostituendola con altro, svagandosi. Tentativi destinati a fallire, l'interiorità, per convinto e insopprimibile senso di necessità, non accetterà di essere zittita o scansata, tornerà a smuovere, a "disturbare". Se il tuo sentire vuole dirti e calarti in qualcosa, testimoniarti, darti la percezione di qualcosa da intendere assolutamente, agirgli contro è come voler soffocare una consapevolezza intima, è come boicottare un modo di volerti portare con i piedi per terra, nella consapevolezza di qualcosa che non va oscurato. Lo star bene ad ogni costo, inteso come liberazione dal sentire attuale e vivo, rischia di tradursi nel non voler aprire gli occhi, nel bloccare tutto, nel voler solo una quiete fine a se stessa, che nel tempo non ti darebbe che impotenza e incapacità di governo della tua vita, uno svuoto di idee e di consapevolezza, una desertificazione dell'animo capace solo di farti inseguire gli altri, di farti concepire la vita unicamente come uniformità al solito e comune, come "normalità". C'è chi ammette che il sentire sofferto possa avere un significato e però lo intende come la meccanica conseguenza di una causa, pensa che sia il segno, la conseguenza di qualcosa, esterno a sè, che sta agendo o che ha agito sfavorevolmente contro se stesso. Si parla spesso e volentieri di stress, del possibile influsso negativo di cause attuali o, preferibilmente, remote. Anche qui non si cerca quell'incontro aperto, rispettoso e dialogico col sentire di cui dicevo all'inizio. Si cercano spiegazioni, si fanno lunghi giri per cercare da qualche parte nella propria storia  una plausibile causa e, una volta scovata, si confeziona il teorema che quello è il motivo dell'ansia, della sofferenza. Contento il terapeuta, contento il paziente, ma il sentire eccolo là presto, dopo momentaneo sollievo, intatto e inascoltato, ancora corpo estraneo con cui non si riesce a entrare in rapporto aperto, utile, fecondo, ancora incapaci di capirsi dentro e attraverso il proprio sentire, purtroppo ancora allontanato, dissociato da sè. Si dice allora che si è imparato a capire il perchè dell'ansia, a gestirla meglio, ma la fragilità del rapporto con se stessi e la paura di sè rimangono, l'estraneità rimane, l'incomunicabilità con se stessi, col proprio sentire, tale e quale a prima. Il sentire, cui si è cercato di dare una causa, senza ascoltarlo, voleva e continua a premere e a chiedere ascolto per proporre, per far capire di se stessi cose essenziali, per far fare passi avanti utili e necessari. Dunque, se vuoi davvero capirti,  è fondamentale che impari ad aprirti al tuo sentire, ad ascoltarlo per davvero, a lasciarlo dire, a raccoglierne l'intima proposta, cosa ben diversa dal mettergli sopra spiegazioni, trattandolo come oggetto temibile da disarmare o da tenere a bada. Potresti imparare a costruire unità piena e dialogica con te stesso. Potresti essere aiutato in questo.

Rigenerare il pensiero

Non c'è altro mezzo per rigenerare davvero i nostri pensieri che non sia legarli a filo doppio, di fedeltà e passione, al nostro sentire e non una tantum, ma sempre. Quando i pensieri viaggiano scissi e distanti dal sentire intimo, considerandolo casomai roba inaffidabile che non serve a capire o che toglie lucidità al ragionamento, accade che o cerchino di fare acrobazie impossibili o che, più facilmente, ricadano nel già conosciuto e in ciò che, unanimemente o quasi, è considerato realistico. Il pensiero scisso dal sentire è anche quello che, dando l'illusione di tenerne conto e di comprenderlo, non lo rispecchia fedelmente, non lo segue con piena aderenza nei percorsi di ricerca e di verità che, a volte scomodi e impegnativi, sa aprire, ma gli costruisce sopra e gli ricama addosso ciò che fa comodo pensare, a tutela dei soliti equilbri e dei più rassicuranti convincimenti. Non è un caso che il sentire dentro di noi spesso alzi la voce e provochi. In genere la cosiddetta ansia e tutto ciò che in svariati modi ed espressioni  interiormente capita di patire, sono considerati fastidi o malattia. Che siano l'invito, senza far tanti complimenti, a mettersi finalmente con i piedi per terra, sulla terra dei propri vissuti, richiamando attenzione e pensiero a occuparsi di esperienza vissuta, di materia viva, tutt'altro che futile o astratta? Se ben ascoltati l'esperienza interiore, il sentire, le emozioni, gli stati d'animo, tutti senza esclusioni, dicono, tracciano percorsi vivi , propongono e in modo affatto impreciso, sbilenco o insensato. Anzi sono davvero l'unica opportunità per vedere e per vedere nuovo, non cessano mai di spingere e di condurre verso ciò che va assolutamente conosciuto, pena il rischio di rimanere sospesi e in balia del pregiudizio, di idee incallite e di comodo che non favoriscono certo la propria crescita, di idee date per scontate, che il coro unanime o quasi vorrebbe uniche e univoche. Senza idee fondate su di noi, guidate e alimentate dal nostro sentire, coerenti con noi e in continuo divenire e crescita, finiamo per non avere alternativa al pensare la vita come cosa già più o meno chiarita e detta e per accodarci al "normale", di pensieri e scelte. 


domenica 25 maggio 2014

A proposito di cause remote e di traumi infantili

Dico subito che se ogni esperienza che ci appartiene, anche del nostro passato, è parte integrante della nostra storia, è momento del nostro cammino, perciò importante, va però saputa riconoscere e rispettare in ciò che nel suo accadere ha mosso dentro di noi, in come è stata vissuta, per coglierne il vero significato.  Quanto al fatto che disagi e malesseri attuali siano la automatica e semplice conseguenza di circostanze ed esperienze negative del passato, soprattutto in ambito familiare  o di veri e propri traumi infantili, più o meno rimossi, va riconosciuto che questa è ipotesi e spiegazione assai cara a un certo tipo di psicoanalisi e di pratica psicoterapeutica.  Soprattutto è ipotesi e spiegazione cara a chi vive la propria sofferenza interiore come carico indebito e ostacolo al vivere quieto o "normale“, a chi volentieri accetterebbe di scovare nella propria storia da qualche parte la causa del “male“. Un simile modo di pensare ignora che ciò che oggi si pone interiormente con vivacità o intransigenza come segnale di crisi va ascoltato in ciò che dice oggi, che casomai è riferito a modi d'essere e di procedere inveterati ma attuali, ad esempio a problemi di lontananza da sè, di mancata unità tra il proprio pensare e il proprio sentire, a mancata intima rispondenza di ciò che si porta avanti, più coerente con altro che con se stessi. Vivere in simbiosi con altro fuori di sé è infatti una modalità d'esistenza assai diffusa, che fa credere che tutto vada cercato fuori, che la realtà sia solo quella disegnata là fuori e pensata comunemente. Ne conseguono l'allineamento e la rincorsa del "normale", l'orrore di non stare al passo con altri, il rifiuto immediato di accogliere ogni richiamo o freno o intralcio che venga da dentro. C’è un modo di procedere assai diffuso che è sostanzialmente passivo e gregario, assai più di quanto non piaccia credere e ammettere, più regolato da sguardo comune e da autorità esterna che da proprie autonome scoperte, che costerebbero per essere raggiunte passaggi interni difficili, che richiederebbero saperli vivere, patire e capire. Capire se stessi, capire come si procede e con quali toppe e controtoppe, con quali insufficienze, per dirla con un eufemismo, di conoscenza di chi si è veramente e che si potrebbe scoprire ascoltando il proprio sentire, ansie comprese, senza omissioni e fughe, tutto questo è spesso compito ancora non svolto. Se stessi è territorio ancora inesplorato, incompreso, mai coltivato tenendo unito pensare e sentire. Parlo di un lavoro di conoscenza di se stessi, tutt’altro che inutile o inessenziale, che è ben altro dal far ragionamenti su di sé, che danno di se stessi solo una visione parziale e accomodata, spesso ipocrita, oltre che sterile. Insomma, partendo dalla sofferenza e dalla crisi interiore aperta e attuale, c’è più da costruire, da creare, da sviluppare di nuovo e di proprio, che da giustificare in ragione di traumi subiti e pregressi. Il malessere interiore, la sofferenza nelle sue diverse espressioni, mai casuali, sempre significative ed eloquenti, se sapute leggere ed ascoltare e non giudicare come malate e incasellate nei vari tipi e sottotipi, per farne oggetto di prescrizione farmacologica e non, è una potente leva o spina nel fianco per spingere a cercare cambiamenti e trasformazioni, che richiedono un serio lavoro su se stessi. La tesi del trauma come origine e causa della sofferenza e della crisi è spesso tesi di comodo, che non sa comprendere che c’è più da costruire il nuovo, che non c’è mai stato e che non c’è, che trovare una remota causa del male, che avrebbe impedito il "normale" sviluppo e lo "star bene", reclamati come ovvi e rivendicati come diritto, a prescindere da ciò che ancora non si è dato a se stessi e alla propria crescita vera. 

sabato 24 maggio 2014

Cadute e ricadute

In riferimento a situazioni di crisi e di sofferenza interiore, che si riaccendono nel tempo, si parla spesso convenzionalmente di cadute e di ricadute. Si usano non casualmente queste espressioni, perchè di ciò che si prova, che si sperimenta interiormente, non si comprende il senso, perchè lì dentro non ci si riconosce, perché lì dentro si vede solo disordine e danno. Diventano, le si fa diventare per paura e diffidenza,  esperienze cieche, verso cui c'è solo ostilità e pregiudizio, nessun incontro, nessuna intesa. Il nostro sentire dice, infilandoci in corsi d'esperienza difficili, dolorosi ci vuol far capire cose di noi e per noi essenziali e utili, ma la reazione è di considerarlo anomalo, patologico, sbagliato, solo perchè non ci allieta e non ci dà conferma, solo perchè diverso. Il nostro sentire siamo noi, è voce nostra, è sensibilità e intelligenza nostra, è volontà nostra di non tacerci verità spesso eluse e mai comprese, anche scomode, ma utilissime, è volontà di trasformare, anche radicalmente, lo stato del nostro pensare e procedere, è passione di libertà e di unità con noi stessi. Il nostro sentire ha forza e onestà di smuovere, di rompere la continuità, di segnalare un'urgenza interiore, di metterci sul chi va là, di impegnarci in un lavoro alla radice per evitare, procedendo incuranti, di andare a sbattere in fallimenti. Quando una vita rimane ad esempio ispirata all'adattamento, alla rincorsa dell‘approvazione, al fare ciò che fan tutti, al considerare legge la normalità, quando si fa confusione tra autorealizzazione e successo secondo tutti, questa vita rischia di fallire, di tradire se stessa, di non dare frutto, il proprio frutto. Quando si procede coprendo la propria responsabilità di ogni proprio gesto e movimento, camuffandone il senso, puntando il dito contro altro e altri, omettendo verifiche oneste su di sè, accade che il proprio sentire non taccia, ma contrappunti ogni movimento e cerchi di dare segnali impertinenti ma utili e puntuali per capire. Se infine la sofferenza prende piede non è per nuocere e non è affatto segno di patologia, è viceversa pungolo e richiamo, spinta potente a prendere coscienza, a iniziare a fare un lavoro finalmente serio su di sè, a comporre con se stessi l'unità e la consapevolezza che non ci sono. Siamo fatti non solo di ragionamento e volontà, siamo fatti di intimo sentire, di esperienza profonda, che dice, che continuamente dice, che ci dà spunti e pungoli di conoscenza nelle emozioni e negli stati d'animo, che ci dà guide di pensiero nei sogni. La maggioranza di noi vive arroccata nella parte cosiddetta conscia e convive con fatica e spesso con atteggiamento diffidente e sordo con l'altra parte, intima, del sentire. Costruire rapporto dialogico e rispettoso con la parte intima è necessità primaria, in genere sottovalutata, anzi incompresa. Perciò, non capendo ciò che l'intimo sentire dice e propone, respingendolo e giudicandolo insano quando dà spinte e proposte difficili o dolorose, non immediatamente comprensibili, ma non per questo incomprensibili o insensate, si finisce per squalificarlo come male, come malattia, come bestia nera da mettere a tacere. Perciò si parla di cadute e di ricadute. Costruire rapporto col proprio intimo sentire è possibile, creando ascolto e dialogo, unità dove ora c'è rottura e incomprensione, diffidenza e paura, paura di se stessi. Con l'aiuto necessario il cambiamento è possibile.

mercoledì 21 maggio 2014

Spettatore o artefice

La condizione dello spettatore, che si fa dire e consegnare contenuto e senso della vita (della propria vita) da ciò che pare già disegnato e dato là fuori (la cosiddetta realtà), che cerca nella mentalità comune e nel turbinio di cose, di notizie e offerte varie per sapere/ istruirsi /divertirsi/ realizzarsi le proprie occasioni ed espressioni, che cerca di segnalarsi agli occhi degli altri come questa fosse la massima conquista, è la condizione che da molti e in genere è ritenuta sana, oltre che scontata. Come se vivere fosse solo usare, imitare, inseguire, dare prova ad altri, lasciando a sè solo parte passiva, di adeguamento, di rincorsa. In sostanza è proprio in questa "normalità" che ci si ritrova ad essere spettatori di un discorso sulla vita, che sembra già scritto e fatto. La propria interiorità però, in simili condizioni, non di rado non sta quieta. Sensazioni, anche dolorose ed insistenti, tentano di far presa sull'individuo, di strapparlo al passivo corso, cercano di fare da guide per aprire gli occhi, per cominciare a sentire sè, a percepire la propria condizione, a riconoscere l'incatenamento al dato, l'adesione automatica, la preminenza dello sguardo e del giudizio altrui rispetto al proprio. Il proprio intimo sentire sa far cogliere non di rado quanto si sia divisi da se stessi, quanto si sia precari, inconsistenti e infelici in quella condizione di gregari, anche se di qualche successo, dietro a un tutto già definito e dato. Ansietà e timori, smarrimento, esitazioni e intoppi, scoramento, svuoto di passione vera, di convinzione profonda, di fiducia fondata, serpeggiano e via via non danno tregua. L'interiorità a volte fa la voce grossa, la sofferenza si acuisce e segnala come un evidenziatore le aree critiche, la verità che non si vuole vedere. A volte sferra colpi durissimi, come gli attacchi di panico, l'orrore di luoghi affollati, per tagliar le gambe, per farla finita di inseguire automaticamente altro, per cercare di imporre all'attenzione sè e l'intimo e non la gente o la piazza. Se, come spesso accade, queste sensazioni vengono viste pregiudizialmente come disturbo e impedimento al  vivere, se ci si limita a cercare espedienti per metterle a tacere e per levarsele di torno, se ci si accontenta dello sfogo e della consolazione di sapere che anche altri patisce, come si patisse un'affezione, una malattia, certamente con le proprie sensazioni un rapporto, un dialogo vero non si aprirà mai. Imparare ad ascoltarsi e a capirsi attraverso le proprie sensazioni sarebbe la conquista da fare, scoprendo che finalmente si può diventare protagonisti di una presa di coscienza, della costruzione di un pensiero proprio, sentito fin nelle viscere. Per fare delle proprie sensazioni l'occasione per cominciare ad aprire occhi e per non essere spettatori impotenti di un discorso sulla vita ( sulla propria vita) già allestito e fatto, bisogna fare un gran lavoro, essere aiutati a farlo, possibilmente da chi non abbia in mente solo di dare medicine o consigli toccasana per rimettere tutto a posto in fretta, per tornare a fare gli spettatori. E' possibile iniziare a vivere davvero. E' possibile partendo dalla crisi, non scrollandosela di dosso, ma prendendola sul serio, procurarsi seria occasione per costruire e dare forma a quello che nella normalità non c'è, a se stessi, a ciò che fa la differenza tra l'essere spettatori e l'essere davvero artefici del proprio cammino, protagonisti della propria vita.