mercoledì 25 marzo 2015

Uscire o entrare?

La richiesta più frequente, di apparente buon senso, di chi è alle prese con un'esperienza interiore fortemente difficoltosa è di essere aiutato a uscir fuori da quella pena, da quel groviglio doloroso. La scelta di venirne fuori pare coincidere con la propria messa in salvo, con la possibilità di riprendere un cammino più favorevole e riconosciuto sano, promettente, abbandonando quello che pare solo un pantano, una trappola. In realtà uscir fuori significa, squalificandola come sciagurata e pericolosa, perdente e negativa, remare contro, divergere rispetto alla tendenza di una parte di sè, interiore e profonda, viceversa a entrare, a non evitare, a non tacersi, anzi a mettere dito e oltre in qualcosa che il sentire vuole rendere appunto sensibile perchè sia riconosciuto, compreso. Un pò come in medicina sul terreno fisico il dolore, il cosiddetto disturbo è sintomo e può e vuole rendere riconoscibile una condizione più complessa, così il sentire, l'esperienza interiore accidentata e spigolosa, ardua e dolorosa rende tangibile e vuole portare vicino a una verità intima finora ignorata, a una presa di coscienza necessaria. Se in medicina sparare sul sintomo per metterlo a tacere è riconosciuto come condotta irresponsabile e stupida, perchè mette a rischio il paziente, di cui, zittendo il sintomo, si oscura la condizione sottostante più complessa, compromettendo la possibilità di indagarne e di conoscerne lo stato vero, così e ancor di più sul terreno psicologico, mettere a tacere come prima scelta, sparare contro una condizione interiore disagevole, bollandola come sfavorevole, negativa e basta o priva di ragioni, solo nociva, casomai con la messa in scena o simulazione di un chiarimento come si fa applicando un'etichetta diagnostica, è scelta scriteriata e niente affatto favorevole. Appiccicare un'etichetta diagnostica, che con parole un pò più tecniche e oscure casomai ripete quanto l'individuo già sa e può dire, non incoraggia certo l'ascolto, la comprensione più attenta, fedele e approfondita, anzi la chiude. Semmai incoraggia la delega al tecnico a far qualcosa per allontanare ciò che ora, dopo la "diagnosi", sembra solo una patologia. Da un lato la parte profonda di sè introduce e spinge attraverso il sentire a vedere e a prendere consapevolezza e dall'altra la volontà dell'individuo, persuaso di far bene e il proprio bene, è quella di scaricare il tutto, di venirne fuori. All'oscuro dunque di ciò che il proprio sentire voleva rendere riconoscibile, perchè, capendo, provvedesse, perchè ne facesse consapevolezza utile e capace di mutare propria visione, modi o scelte, l'individuo che è stato aiutato a uscir fuori, anzichè a entrare nella comprensione del suo sentire, non avrà certo mezzi utili per fare il proprio bene e interesse. Per avere mezzi e strumenti validi, per sventare rischi di infelice conduzione di se stesso, per comprendere ciò che più profondamente gli è necessario, per diventare più fedele interprete di se stesso, per capire ciò che c'è di vero, ciò che utilmente e necessariamente va trasformato e costruito, l'individuo ha vitale necessità di intendersi con se stesso, di capire ciò che sente, che dentro di sè preme e insiste per essere udito. Trattare come segnale di guasto, come cattivo sentire ciò che un individuo pur penosamente sente, racchiude il rischio di fare un serio danno, come in medicina può fare l'uso di sedativi per soffocare ciò che è segno emergente di una condizione fisica complessa da identificare e capire con cura e con  tempestività. Se ad esempio un individuo dolorosamente non riesce a trovare, vede cadere dentro di sè stima e fiducia in se stesso, se avverte perdita di interesse verso tutto, senso di lontananza da ciò che lo circonda, è fondamentale che non sia incoraggiato a uscire da quei vissuti, trattati subito come patologici e privi di motivo valido, ma semmai aiutato a entrarci per ascoltarli, per ben comprenderli in relazione a se stesso, senza stare a vedere se fuori di sè ha questo o quello di cui potrebbe già compiacersi o per cui potrebbe rimotivarsi. Capita infatti che sia necessario vedere il poco o nulla di sè che c'è in un modo di vivere pur all'apparenza convincente perchè "normale". L'interiorità non tace ciò che impegnativo va riconosciuto, non tace il vuoto di sè, la mancanza di motivi validi di compiacimento e stima verso se stesso, dove l'esistenza, di fattura normale, sia stata condotta in modo gregario, imitando, ripetendo, applicando e punto. Un segnale impegnativo e doloroso, ma vero, per arrivare davvero a intendere, a concepire e a desiderare il nuovo, una vita che abbia il proprio volto, fedele a sè, fatta di scoperte di significato proprie, di realizzazioni di matrice e costruzione propria. Ho portato in modo breve un esempio per far capire come definizioni come quelle per cui un vissuto doloroso sarebbe solo insano e deleterio, non avrebbe motivo d'essere e andrebbe rapidamente superato e spento, potrebbero essere oltre che una fandonia, un atto di irresponsabilità, un atto "curativo" tutt'altro che benefico. L'interiorità propone non di rado di entrare in percorsi interiori non facili, ma utili e necessari per capirsi, per vedere il vero con i propri occhi, per cambiare consapevolmente e convintamente, per crescere. Per prendersi davvero buona cura di se stessi è importante essere incoraggiati e validamente aiutati a entrare, a compiere quei percorsi, pur difficili, sviluppando la capacità di comprenderli intimamente, anzichè essere indotti dalla "cura" a nutrire ulteriore timore e diffidenza verso il proprio intimo sentire, ad avere ancora più insofferenza e impazienza di allontanarlo, di uscirne. E' importante e possibile essere aiutati a prendersi cura di se stessi per unire, per trovare unità con se stessi, per non remare contro e per non divergere da se stessi, per non coltivare, pur convinti di agire al meglio, solo la propria inconsapevolezza, per non disarmarsi, per non buttare via ciò che, tutt'altro che dannoso, se compreso, può aprire la strada per trasformare utilmente la propria vita, per renderla davvero la propria vita.

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