sabato 28 maggio 2016

Malessere e (mal)trattamento

I modi di pensare comuni fraintendono e trattano malamente l'esperienza interiore particolarmente quando alza i toni e diventa difficile e sofferta, non sono per nulla adatti a comprenderla. Si parte in genere dal principio, che pare ovvio e indiscutibile, che se si vive un'esperienza interiore disagevole, se si prova ansia, malessere interiore nelle sue diverse e possibili espressioni, questo sia uno stato anomalo, sfavorevole e nocivo da cui uscire prima di tutto e al più presto. La sofferenza interiore è certamente una esperienza non facile, non piacevole, può essere assai penosa, a prima vista insolita e strana, ma non per questo è insana. Non è insana perchè non è insulsa. Anche se spesso si è pronti a sostenere che non ha motivo d'essere, anche se la si stigmatizza come abnorme e assurda per il modo insolito di proporsi, in realtà dice cose vere, assolutamente fondate e con grande precisione, anche se richiede, per essere compresa fedelmente, sia un diverso animo, che non voglia rifuggire e scaricare ciò che interiormente risulta spiacevole, che capacità di ascolto e riflessiva, che solitamente non si possiedono. Pare strano, ma si cresce imparando più a intendersi, si fa per dire, col mondo esterno che col proprio sentire, che con se stessi. Per questo motivo le esperienze e le vicende interiori complesse e disagevoli colgono  impreparati molti e suscitano facilmente risposte più volte a contrastarle e a combatterle, che a avvicinarle, a intenderle, a valorizzarle. Se è comprensibile lo smarrimento e la reazione di paura di fronte all'acuirsi di esperienze interiori affatto comode e discrete, bensì pervasive e persistenti, non è esagerato dire che è perfido oltre che ottuso giudicare senza appello come anomalo o malato ciò che non si sa avvicinare, che non si sa ancora intendere. Il trattamento riservato al malessere interiore nelle sue diverse espressioni finisce spesso, costringendolo a fare i conti con principi di presunta normalità di funzionamento e non, di salute e malattia, per squalificare come disturbo e malfunzionamento ciò che non è compreso nel suo significato e valore, ciò cui non si concede il minimo ascolto. Tutto avviene con le parvenze della cura, della volontà di procurarsi e di farsi dare da cure e da curanti beneficio. In realtà il beneficio ha il prezzo del rifiuto e della fuga, del combattimento ostile contro parte viva di se stessi cui non si sa dare riconoscimento e ascolto. La vita interiore è l'eterna sconosciuta, bollata, catalogata nelle sue espressioni meno facili da capire con le diverse etichette diagnostiche (le diagnosi, operazioni classificatorie sterili, che però, in virtù dell'essere pronunciate da presunti esperti, sembrano definire per intero contenuto e significato di ciò che in partenza, che a priori e senza appello è giudicato anomalo), frantumata in sintomi che vorrebbero suffragare il guidizio diagnostico, spiegata con ipotesi di apparente sapore scientifico di squilibri biochimici (la biochimica, le reazioni biochimiche accompagnano, fanno da substrato a ogni espressione della nostra vita, del nostro essere, ma ciò non significa che il nostro essere si riduce alla biochimica o che ne è in automatico determinato), giudicata nelle sue espressioni come disfunzionale, incongrua e non utile, tutto meno che saputa avvicinare e comprendere in ciò che dice, che rivela, che intende proporre, nello scopo che vuole promuovere e far perseguire. Non ci si può certamente limitare a assumere l'idea che ciò, che interiormente è squalificato e ridotto a segno di malattia, ha un senso e un valore, si tratta di essere aiutati a avvicinare e a comprendere davvero, puntualmente e senza omissioni, il proprio intimo sentire e tutto ciò che la propria esperienza interiore propone. La possibilità esiste, ma serve che lo stesso curante non sia estraneo alla vita interiore, che non sia un semplice ripetitore di teorie e di tecniche curative prese in prestito da scuole e da libri e riprodotte. Se il curante, lontano dalla conoscenza interiore e di se stesso prima di tutto, è tutt'uno con l'idea del malessere come anomalia da sanare, con la ricerca aprioristica del rimedio per rimettere ordine, se, nel migliore dei casi (migliore si fa per dire) pensa che ci sia una causa da cercare in qualche recondito del passato o in qualche circostanza avversa per spiegare la sofferenza che non sa ascoltare e comprendere in ciò che sta dicendo e svelando adesso, finirà per diventare complice e istigatore della fuga dell'altro da se stesso, del suo dissociarsi dal proprio intimo e profondo. Se l'individuo che soffre interiormente crede che la sua esperienza interiore difficile e sofferta sia solo una minaccia, un impedimento, un danno, tutt'attorno il modo prevalente di concepire la vita e il cosiddetto benessere non incoraggia di certo la riflessione, l'avvicinamento fiducioso a se stessi, l'ascolto, la valorizzazione di ogni segnale e espressione della vita interiore. Il comune imperativo di fronte a situazioni di malessere interiore è "uscirne al più presto", le stesse cure, farmacologiche e non, sembrano essere più strumenti per cacciare via e mettere a tacere il proprio sentire, che aiuti per colmare la frattura di paura e di insofferenza, di pregiudizio e  di diffidenza, che separa da se stessi, per trovare col proprio intimo, con ciò che si prova e sperimenta interiormente capacità di incontro, di ascolto, di comprensione. Il malessere è espressione viva di una parte di noi stessi, profonda, più interessata a entrare nel merito e nel profondo di come siamo e di ciò che ci coinvolge, che di far proseguire indisturbata la nostra esistenza come se niente fosse, accontentandoci di apparire a noi e agli altri normali e adeguati, con tutte le cosine a posto. Dentro di noi e profondamente siamo più attenti e testimoni del vero, che di ciò che ci fa comodo pensare. Profondamente abbiamo più istinto e desiderio di non tacerci nulla, di non rinunciare a noi stessi e prima di tutto a vedere le cose che ci riguardano con attenzione e verità, che di proseguire indenni e indifferenti, illusi e senza conoscenza di chi siamo e di come siamo. Se il profondo agita le acque, se addirittura, per sospendere il quieto e solito procedere, dà scosse tremende come con gli attacchi di panico, un motivo c'è, un motivo di salvaguardia per non perdere tempo e per provvedere, per non perdere se stessi in un corso di vita in cui nulla di sè si è davvero preso a cuore, nulla è stato davvero compreso e approfondito, nulla sì è coltivato e fatto crescere capace di rendere autonomi e capaci di fare della vita la propria vita.   Il malessere interiore non è una trappola da cui uscire in fretta, è semmai il contrario, sempre che si impari a comprenderlo per il suo verso, sempre che si impari, casomai con l'aiuto di chi sappia dare gli strumenti necessari, a dialogare con la propria esperienza interiore e non a trattarla come un incomodo, come un meccanismo guasto da riparare o da mettere a tacere in qualche modo. Il profondo, che agita le acque, che non dà tregua, che esercita potenti e insistiti richiami attraverso il malessere interiore, se ascoltato in ciò che dice nel sentire e soprattutto nei sogni, dove dà il meglio per spingere a guardare dentro se stessi e a capirsi, sa aiutare a trovare la strada, sa aiutare non già a uscire dalla crisi rimanendo tali e quali, ma a entrare in un percorso vivo di ricerca per finalmente arricchirsi di consapevolezza, per diventare se stessi pienamente. Se si vuole si può imparare, con l'aiuto giusto, a prendersi davvero cura di se stessi, cercando unità con la propria interiorità, col proprio intimo, assecondando ciò che il malessere e la crisi interiore vogliono generare. Se viceversa la cura, pur con le migliori intenzioni dichiarate, è operazione ostile, se respinge ciò che si fa avanti dal profondo, se lo cestina come insano e patologico, se tenta di raddrizzarlo perchè lo giudica disfunzionale, se non sa riconoscerlo come proposta intelligente, come spinta e via di trasformazione e di crescita, non solo utili, ma necessarie e di vitale importanza, rischia di seppellire il proprio in nome del qualunque, di confermare e di rafforzare soltanto la rottura con se stessi.

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