martedì 14 giugno 2016

Realtà e "derealizzazione"

Riprendo qui il filo di un discorso aperto in un precedente scritto (titolato:simbiosi con altro e fuga da se stessi), per svolgere un approfondimento sulla cosiddetta derealizzazione.                                     Per realtà si intende comunemente quell'insieme strutturato e organizzato esterno a sè, cui si sta rivolti e intenti (oggi si direbbe connessi), da cui ci si fa dire e dare, da cui spesso ci si fa suggerire temi e opportunità, dentro cui sembra doversi inscrivere la propria ricerca di cose da conoscere, da sperimentare, da realizzare. Imparando, come in genere si fa, a stare in ben stretto legame con cose, vicende, persone, assimilando tutte le regole di una simile integrazione e il relativo linguaggio e modo di pensare , prendendo, per esempio, per buono che ciò che è sotto i riflettori è ciò che è più attuale e importante, che ciò che si discute tra i più è l’ordine del giorno degli argomenti da svolgere e da sapere, via via nutrendo dentro sé, sempre più, fame di questo altro esterno a sè e la paura che, senza contatto e riconoscimento esterno, si sia soltanto in ombra e a rischio d’essere spenti, ci si convince che in quell'insieme esterno e in quello stretto legame adesivo con esso ci sia la realtà in assoluto e il contatto con la realtà. Realtà dunque diventa ciò da cui si dipende totalmente, cui si fa riferimento per avere luce negli occhi, argomenti, opportunità, scansione di tempo, tutto insomma. La crescita di un individuo corre spesso lungo questo binario. Si impara a considerare reale solo ciò che sta in stretta correlazione e dentro questo insieme esterno. Reale potrebbe essere "in realtà" tutto ciò che si può incontrare nel proprio e nell'intimo di sensazioni e di stati d’animo, imparando a dialogare con questi e a trovare lì comprensione di significati, luce e sguardo, argomenti e punti di riferimento, senso di ciò che è vero, fondato su scoperta originale, tenendo conto di sé, ma questa è possibilità spesso ignorata oppure sminuita. Cos'è possibile infatti, ci si chiede, trarre da sè, dal confronto con se stessi, che peraltro si auspica veloce, non troppo prolungato, per paura di rimanere indietro, se non qualche commento sull'ordine del giorno di cui dicevo, se non qualche proposito di stare meglio inseriti e al passo del reale là fuori?                                                                 Cosa accade quando la componente profonda dell’individuo non tollera più lo stato di dipendenza dall’esterno come unica fonte e unico supporto vitali, quando, per segnalare che c’è urgenza e necessità di trovare nuova realtà viva e consistente, vero senso di realtà, per spingere a congiungersi a se stessi, a connettersi non al fuori ma al proprio sentire e alla propria intima esperienza, per cominciare finalmente a accendere e a formare sguardo e pensiero propri, prende con decisione a staccare i fili che connettono all'esterno? Cosa accade quando la cosiddetta realtà per iniziativa profonda è resa nel vissuto smorta, scolorita, opaca, piatta, quando il sentire impone senso di non familiarità, di estraneità, di lontananza da tutto ciò là fuori che fino a ieri era cercato come essenziale e necessario, come una droga per avere senso di contatto, di presenza in qualcosa, di presenza in una storia, senza che la propria storia e i suoi presupposti e fondamenti avessero mai visto la luce? Se la componente profonda non accetta la lontananza da se stessi, l’illusione d’esserci e di essere in un percorso significativo e proprio, quando invece si è solo a rimorchio, quando si riproduce solo una parte e un ruolo tenuto su e reso credibile da sguardo e da conferme esterne più che da consapevolezza e da persuasione proprie e profonde, mai cercate e coltivate, se di conseguenza prende posizione forte e crea un simile stato di disconnessione e di perdita di sintonia con l'esterno, la reazione dell'individuo è non solo di comprensibile smarrimento e sconcerto, ma anche di disperazione. Qualche esperto o preteso tale è già pronto a battezzare il malessere che insorge, la crisi che si apre (che vuole mettere in questione l'equilibrio, tutt'altro che esaltante, della dipendenza totale dal cosidetto reale, che chiude a se stessi), con espressioni tecniche come "derealizzazione", che come paroline magiche sembrano spiegare tutto, che sembrano avere l'autorevolezza del sapere scientifico, con tanti pronti a riverirle, a servirsene, ad assumerle come il chiarimento esaustivo del proprio stato, considerato automaticamente anomalo e da curare come fosse un’affezione al pari dell’influenza o della polmonite. Che triste realtà quella in cui non si comprende che reale è prima di tutto la propria presenza, il proprio essere da incontrare e da conoscere nella sua totalità e pienezza, ricomponendo la dissociazione tra pensare/agire e sentire/esperienza interiore, che reale è ciò che si comprende davvero, passando attraverso se stessi, conoscendo su base di intima esperienza e riflessione e non replicando il sentito dire!

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