venerdì 1 settembre 2017

Non mente mai

Non mente mai, è sempre affidabile guida. Tutto ciò che si propone nel nostro sentire, ansia compresa, è base sicura di incontro con noi stessi, di ricerca, di verifica attenta. C'è sempre il vero nel sentire. La nostra interiorità ci offre di continuo i richiami giusti, le guide per rientrare in noi, per uscire da una condizione di inconsapevolezza. I ragionamenti, ciò che produce la parte conscia e ragionante di noi stessi, facendo da sé, senza sostegno e senza guida del sentire, non ha spesso nulla di affidabile per arrivare a vedere dentro di noi. Anzi, seppur inconsapevolmente, i pensieri costruiti col marchingegno del ragionamento assorbono luoghi comuni, schemi di pensiero e di giudizio aprioristici, mai verificati e compresi davvero, li replicano, sono guardie a difesa dello status quo, fanno un lavoro che serve più a mantenere, a consolidare posizioni preconcette che a aprire alla comprensione del vero. Il sentire non mente, è il linguaggio della nostra parte profonda, che vuole segnalare dove stiamo davvero mettendo i piedi, cosa stiamo facendo di noi stessi. Il nostro sentire ci vuole dare occasione di percepire ciò che realmente ci sta accadendo, lo rende problematico, carico di tutte le sue implicazioni più scottanti e vere. Sentire significa riconoscere i significati in modo vivo, ben addentro, senza aggiustamenti, senza veli. Il lavoro della nostra parte profonda è incessante, trova espressione nel sentire, in tutto ciò che fuori da controllo di volontà e ragione si svolge dentro di noi, trova ancora espressione eccellente nei sogni, che, se saputi avvicinare e comprendere nel loro originale linguaggio e intendimento, si rivelano  potenti fari per capire, autentici laboratori di pensiero, non campato per aria come nei ragionamenti, ma sensato e aderente come null'altro al vero, di profondità e respiro impareggiabili. Tutto il problema è formare capacità di incontro, di dialogo, di rapporto creativo con la nostra interiorità, capacità non di commentare, non di spiegare ciò che ci accade interiormente, ma di intendere ciò che il nostro sentire e tutta la nostra esperienza interiore e profonda dice, mostra, svela, ci conduce a comprendere. Si cresce imparando a rimanere intenti e inchiodati alla realtà esterna, ma non a trattare e a comprendere l’esperienza interiore. Formare capacità di ascolto e riflessiva per essere in grado di vedere l’ìntimo di stati d’animo, di emozioni, di vissuti è ciò che andrebbe sviluppato dentro una buona psicoterapia. La tendenza abituale, che ci si porta dietro è infatti quella o di giudicare o di spiegare da fuori e dall’alto del ragionamento ciò che si prova. Dobbiamo stare molto attenti a non parlar sopra ciò che sentiamo, è tale l'abitudine a far girare i ragionamenti, che, anche messi di fronte a ciò che proviamo, la tentazione di dargli una spiegazione, un perché, incastrandolo dentro i soliti punti di riferimento, è fortissima e spesso scatta fatale, uccidendo ciò che il sentire ha intenzione e capacità di dire. E' come se in presenza di un altro che soffre e che in ciò che sta patendo ha da dire, cominciassimo subito, senza ascoltarlo, a dirgli il perché e il percome della sua condizione e cosa gli è utile fare. Così col nostro sentire è importante imparare a lasciarlo dire, a portare lo sguardo su ciò che sta svelando. L'ansia e tutto ciò che si muove nell'esperienza interiore, anche se doloroso e arduo, anche se insolito e assillante, non è nemico, considerarlo tale solo perché scomodo e perché intralcia il cammino è una vera sciocchezza. Tutto l'impianto della cura volto a sconfiggere l'ansia e il malessere interiore come scopo primario è l'espressione della miopia se non addirittura della cecità della parte conscia, che non vede altro che ciò che è abituata a concepire, che vuole mantenere e in cui vuole persistere, non ultimo perché così fan tutti. L'ansia è amica e dire questo non è un mezzuccio per riuscire a conviverci o a neutralizzarla. L'ansia è il linguaggio del profondo che tutto vuole meno che ci perdiamo e che ci prendiamo in giro. L'ansia e il malessere interiore chiedono di essere ascoltati e valorizzati come base e tramite per aprire gli occhi, per avvicinarci a noi stessi, per capirci. Se il profondo arriva a usare le maniere forti come con gli attacchi di panico o con strette continue di apprensione e di ansietà che tolgono il fiato, che non concedono quiete, è perché sa che lasciarci liberi in ciò che stiamo concependo e facendo, scissi e lontani, non comunicanti con la nostra parte interiore, è come destinarci a essere privi di guida, buoni per essere a norma, ma non per essere consapevoli e autonomi, capaci di riconoscere il vero di noi stessi, di dare vita al nostro pensiero e di dire la nostra, a modo nostro.

domenica 6 agosto 2017

Con le buone o con le cattive

In presenza di malessere interiore si verifica un conflitto tra la componente cosiddetta conscia dell'individuo, tutta sbilanciata dalla parte di ciò che crede di conoscere e su cui è abituata a fare leva, protesa a difenderne la continuità e a far valere lo status quo e la sua interiorità, la parte intima e a fin di bene, perché non accada il peggio. Il peggio per l'individuo è di procedere illuso di sapere e di conoscere ciò che va difeso a oltranza e mantenuto nel proprio interesse, in realtà senza capire cosa sta davvero facendo di se stesso, in realtà senza ancora aver conosciuto nulla di se stesso e del proprio potenziale. In questa situazione di conflitto, in cui la parte profonda, aprendo la crisi, spinge perché si produca un profondo quanto salutare cambiamento, in cui col malessere preme perché l'individuo si coinvolga per intero, ceda a far sua questa necessità di trasformazione, ne prenda coscienza e cooperi per produrla, accade invece che l'individuo, ignaro di questi perché del malessere, di queste ragioni della propria interiorità, convinto di sapere già con certezza cosa va affermato e mantenuto, si aspetti in genere che a cambiare debba essere la propria interiorità, che sia pronto a battersi per ottenere questo. L'individuo in genere auspica, persuaso di avere tutte le ragioni dalla sua, che la sua interiorità, che insiste nel proporre qualcosa di interiormente difficile e sofferto, si rimetta in riga, smetta di dare fastidi e tormento, smetta di intralciare. Anzi l'individuo vorrebbe che le proprie risposte interiori fossero concordi e solidali, di appoggio e non di ostacolo al suo sforzo, alla sua pretesa di  perseguire i risultati e le prestazioni giudicate normali e positive secondo modelli e idee comuni. Con le buone o con le cattive. C'è chi trova che evadere e non dare peso, non concedersi alla presa del malessere e non esserne impensieriti, sia la scelta giusta e vantaggiosa. E' come dire a se stessi, alla propria interiorità: tu mi rompi e insidi la mia tranquillità e buon umore, ostacoli la mia voglia di procedere indisturbato, il mio diritto di stare bene e io ti ignoro, non ti do peso. C'è chi, vedendosela brutta, perché l'interiorità sa essere cocciuta, cerca nei farmaci, previo il verdetto di qualche psichiatra o figura simile, che con la diagnosi, con l'apposizione di una etichetta dia l'illusione che sul (presunto) guasto ci sia finalmente una presa sicura, lo strumento per zittire e per raddrizzare la parte di sé che non vuole tacere. C'è chi ancora cerca una terapia psicologica, che, come quelle di tipo cognitivo comportamentale, oggi assai in voga, prometta di aggiustare presto le cose, affidandosi a chi diriga e impartisca istruzioni e schemi di nuovo comportamento, tecniche per imbrigliare o per correggere quelle che paiono soltanto anomale risposte, paure di troppo e assurde, strani grovigli, cadute di fiducia inspiegabili e nocive. Tecniche terapeutiche, a volte dai nomi suggestivi e catturanti, che parlano di strategie e di modifiche in tempi brevi dei modi di pensare e di reagire, giudicati sbagliati, in gergo tecnico "disfunzionali", sembrano il toccasana, il sostituto del rimedio chimico, ma per ottenere il più in fretta possibile lo stesso risultato: porre fine a esperienze interiori che sembrano solo una sciagura e un modo guasto di sentire, di reagire, di vivere, ottenere che tutto giri nel verso giudicato sano e positivo. Per finire c'è chi, disposto a seguire un cammino di ricerca più impegnativo, vorrebbe essere aiutato a trovare la causa del suo malessere, partendo sempre, né più né meno di chi ha scelto le strade dette prima, dal presupposto che la propria esperienza interiore stia dando segni di guasto e di malfunzionamento. La causa sarebbe quel fattore x, preferibilmente rinvenibile nel proprio passato, che nella forma di un cattivo condizionamento, di una influenza negativa, di un affetto negato o esercitato in modo distorto da familiari o simili, di un trauma, avrebbe inceppato e reso anomalo il proprio sviluppo, lasciato tracce e conseguenze ancora presenti. Insomma l'idea di fondo è che tutto avrebbe dovuto svolgersi e svilupparsi regolarmente e bene e che qualcosa abbia scassato il meccanismo. L'idea è che nell'esperienza interiore disagevole di oggi  ci siano i segni di un torto patito, che ci siano i modi di rispondere emotivi dettati e insiti in esperienze negative trascorse, che tendono a ripetersi, a permanere. Trovata la causa pare trovata la via di uscita, l'occasione per liberarsi di quelle reazioni e risposte emotive, per saldare il conto, per affrancarsi finalmente da quelle ombre del passato, per mettere a tacere il proprio malessere interiore. Poco importa che (succede in non poche psicoterapie che vorrebbero definirsi di tipo analitico), dopo aver trovato la causa, cosa che se da un lato fa contento lo psicoterapeuta, che può dimostrare di aver saputo svolgere il suo compito, dall'altro pare dare sollievo immediato all'individuo in terapia, che può dirsi che ora sa, che ha capito, che è andato finalmente alla radice del problema, accada non raramente che la sua esperienza interiore continui a riservargli la sgradita presenza di una inquietudine, di un malessere che non demorde, che ancora la sua esperienza viva interiore rimanga ai suoi occhi alla fin fine qualcosa di scomodo e fastidioso da fronteggiare. A questo punto la risposta dell'individuo, la sua auto rassicurazione è che ora potrà gestire meglio le sue emozioni, le sue esperienze interiori. Gestire come si gestisce un meccanismo, una cosa appunto, da tenere a bada. La scoperta della causa gli fornisce il mezzo per rispondere all'esperienza interiore difficile con un atteggiamento del tipo: adesso so perché sento questa ansia, so perché reagisco così, non perderò il controllo, aspetterò che si moderi, cercherò di conviverci. In sostanza accade che, dal momento della individuazione della presunta causa, al proprio sentire si metta sopra una spiegazione fissa, la spiegazione di causa e effetto elaborata in psicoterapia, senza ascoltarlo ogni volta in ciò che ha da dire, che vuole rendere tangibile e riconoscibile in quel momento, cosa peraltro che non gli è stata concessa e garantita  neppure nella fase della ricerca della causa. In questi casi, non certo rari, il rapporto con se stessi non è cambiato, da un lato c'è il ragionamento che ha sistemato le sue idee e convinzioni, illuso di avere chissà quale nuova consapevolezza e dall'altro continua a esserci un'interiorità con cui permane incapacità di apertura, di sintonia e di incontro, con cui non c'è dialogo e confidenza. Ancora c'è un sentire, il proprio sentire, che in ciò che dice continua a non essere ascoltato, a essere spiegato con formule rigide, a non essere compreso nel suo linguaggio, in ciò che vuole fare toccare con mano e conoscere, in ciò che vuole comunicare. Ahimè l'interiorità in un caso o nell'altro, presa con le buone o con le cattive, continua a essere oggetto di incomprensione e della pretesa che in qualche modo cambi, che si "aggiusti", che si normalizzi. E' davvero un paradosso, la propria interiorità è la parte del proprio essere, tutt'altro che scriteriata e inaffidabile e da tenere a bada, che, se compresa, potrebbe come è nelle sue intenzioni (col sentire, con tutti gli svolgimenti interiori, non certo insensati, con i sogni) guidare, con fermezza, lucidità e saggezza, al cambiamento, che vorrebbe dare linfa, spinta e occasione per avvicinarsi a sé, per conoscersi davvero e apertamente, per vedere con i propri occhi e non attraverso la lente dei giudizi convenzionali e comuni, per trovare le proprie ragioni d'esistenza, per trasformare il proprio pensiero da astratto e convenzionale a pensiero vivo, originale e fondato e invece... Invece si chiede proprio alla parte interiore di sé, la più preziosa, valida e capace, di mettersi in riga, di ritornare finalmente a uno stato di "normale" funzionamento, lasciando l'altra parte in pace e libera di proseguire, non importa se, in assenza di guida propria, a rimorchio di idee, di schemi e di valori presi in prestito e preconfezionati, con l'illusione di sapere e di decidere, in realtà senza comprensione dei significati veri insiti nelle proprie esperienze, senza verifica e scoperta di ciò che per sé vale davvero, senza conoscenza profonda di se stessi e di ciò che di sé vorrebbe vivere e realizzarsi. L'interiorità che potrebbe ridare all'individuo la sua vera identità e il suo bagaglio di idee e di passioni autentiche e fondate, che potrebbe condurlo a trovare, a generare tutto ciò che gli manca per essere individuo completo e autonomo, deve solo tacere e mettersi in riga. Con le buone o con le cattive, perché le cose rimangano quelle di sempre, normali, regolari, in buona intesa con altri e con tutto, fuorché con se stessi.

domenica 16 luglio 2017

Felicità rubata? Incapacità di essere felici?

Accade non di rado che si lamenti una sorta di incapacità di gioire di ciò che, già presente nella propria vita o a portata di mano, si ritiene essere giusto e valido motivo di soddisfazione. Inquietudine interiore, malessere e apprensione, sembrano malamente insidiare o derubare se stessi del diritto, come tale è vissuto, di godere della vita e di ciò che parrebbe desiderabile e soddisfacente. E' una sfortuna e una maledizione che ci sia una parte del nostro essere che, non dando credito a ciò che ostinatamente vorremmo farci credere, che guardando con disincanto e con acume critico ciò che ci siamo proposti come ideale, casomai tutto dentro guide di senso e schemi di valore comuni, segnala che non c'è lì, nel raggiungimento e nella difesa di simili traguardi, vero motivo di gioire e di cantare vittoria? Dobbiamo per intero a noi stessi questa stonatura, questa divergenza di sguardo e di opinioni. Lo dobbiamo al fatto che non siamo (per nostra fortuna) solo calcolo e ragione, mezzi spesso utilizzati solo per stare in riga e per ripetere luoghi comuni, per andare al traino di modi condivisi di pensare, azzerando ogni impegno di vedere e di capire con la nostra testa. Una parte di noi stessi, che ci parla e che si fa valere in noi attraverso stati d’animo, vissuti interiori e emozioni, ha capacità di vedere con maggior autonomia e capacità critica ciò che la nostra parte cosciente da sola non è disposta e capace di mettere in questione oltre che di intendere. C'è una tendenza allo sfascio, c'è una patologica tendenza del profondo a guastare la festa? O invece, con saggezza oltre che con puntiglio, il profondo vuole che il vero si affermi, casomai per non perdere la propria vita in realizzazioni dettate solo da conformismo e da passivo assorbimento di idee e valori? Per non finire nel buco di mete e di scopi già segnati, per non seppellire la possibilità di comprendere e di concepire da sé, autonomamente, i propri perchè e scopi, di sviluppare la presa di coscienza, la conoscenza che serve per nutrire e orientare progetti propri, per non smettere mai per tutto il corso della vita di cercare e di costruire a modo proprio, è fondamentale e provvidenziale l'azione di "disturbo" e di rottura del profondo. L'inconscio non suona la stessa musica della parte conscia e razionale, che tanto si crede intelligente e superiore alla parte interiore e “irrazionale”, quanto in realtà è spesso ottusa e inaffidabile, pericolosamente inaffidabile nell'istigare a ficcarsi nell'imbuto delle idee e dei propositi convenzionali e a soffocare come malata la voce del profondo, del sentire che dissente e che suggerisce cose vere, anche se scomode.

domenica 25 giugno 2017

Controcorrente

Controcorrente va la proposta del profondo, va il corso interiore che non dà quiete e tregua, che, deludendo le attese e le pretese della parte conscia, non concede, nello svolgersi dell'esperienza, respiro facile e movimento fluido e disteso. Pare un fastidio, ma l'inconscio, interferendo, contrappunta l’esperienza di segnali e di richiami alla presa di consapevolezza. Subito intesi e squalificati come segni di malfunzionamento, come odiosi e incomprensibili intralci, come segni di anomalo sentire (etichettati come ansia e con tante svariate diciture) sono stimoli mirati e intelligenti, sono occasioni per vedere chiaro. Sono complicazioni necessarie e salutari, dove si intenda la necessità di capire e di capirsi. Le istanze del profondo sono di fondare su di sé e su conoscenza attenta le proprie scelte, sono di comprendere ciò che sostiene e implica ogni movimento e modo di procedere, sono di non perdersi nell’illusione, di non svanire come soggetti nell’adattamento, nell’andare dietro all‘idea convenzionale, nel ripetere schemi pronti, nel cercare vita e occasioni, formazione e completamento di sé nell’adesione e nella presa dipendente su altro e su altri. La preoccupazione del profondo è di non perdere se stessi nell’inconsapevolezza, di non confondere il "normale" procedere con la propria fedele realizzazione, di non scambiare la simbiosi con altro, che sia persona o cosa o ruolo o prestazione, fisica o intellettuale, pur applaudita e comunemente ben considerata, con la propria crescita e miglior realizzazione. L’inconscio, la parte profonda di noi stessi non ammette imbrogli, non tollera autoinganni, ha a cuore il nostro originale merito e talento, che prima di tutto è capacità di visione chiara, di genuino pensiero, ha a cuore di non seppellire il nostro possibile originale apporto alla vita. La parte profonda insiste nel dare occasioni di scoperta di verità, senza censura e senza ritegno, senza risparmio e senza preoccupazione circa il fastidio e la sofferenza che la verità, che l’impegno di cercarla e di reggerla  può procurare. Non dà tregua nel dare spunti di  ricerca, perché vivere e esprimere al meglio il proprio essere significa coltivare, far nascere e crescere le proprie idee e progetti e non consumare soluzioni e idee già pronte, significa credere profondamente e amare ciò che si sostiene e si vuole far vivere e non farsi indirizzare e portare dal consenso e dalla approvazione altrui. Controcorrente va il nostro profondo per consentirci di rompere l'illusione, per darci occasione valida e piena, per coinvolgerci nella corrente della vita.

domenica 26 febbraio 2017

Ancora sugli attacchi di panico

Ho già scritto in passato sugli attacchi di panico, ma, vista la frequenza con cui simili esperienze si propongono, anche e non casualmente in individui giovani, provo a riprendere l'argomento per tornare a dare, tratto da lunga pratica analitica, qualche spunto di riflessione. Chi subisce un attacco di panico auspica soltanto che non si ripeta, vuole tornare al più presto alla normalità, al consueto, anche se si sente molto segnato da un'esperienza così estrema, anzi continuamente si sente in apprensione, sul chi va là per la possibile ripetizione dell'attacco. In realtà all'attacco di panico non vuole dare retta, non ha come primo interesse quello di capire cosa significhi, a che scopo si sia prodotta dentro di sè una simile esperienza. Il fatto che abbia avuto un carattere così sconvolgente, che abbia investito il corpo in modo così forte e significativo, favorisce l'idea che sia stato un guasto, un evento anomalo assai temibile, una pericolosa minaccia da scongiurare e da debellare. Dopo l'attacco le indagini cercate con insistenza sul terreno medico, con esami clinici innumerevoli, con visite specialistiche varie, con test diagnostici ripetuti, alla ricerca di disfunzioni e di patologie possibili, vorrebbero da un lato scongiurare l'esistenza di gravi problemi organici e dall'altro soddisfare l'attesa di scovare cause ben definite e circoscrivibili, utili per riuscire a ridurre a problema fisico e a dominare in qualche modo, a porre sotto controllo un'esperienza così inquietante e misteriosa. La lontananza perdurante, anche se poco o nulla considerata importante, dal proprio intimo e l'incomprensione abituale della propria esperienza interiore, non aiutano certo chi lo vive a intendere l'attacco di panico come esperienza significativa, non nociva o semplicemente distruttiva, come potrebbe apparire, ma necessaria e con un senso, utile e propositiva nelle intenzioni del profondo che la scatena. Se qualcosa dentro di sé fa la voce grossa e ricorre alle maniere forti è infatti per far sì che si porti l'attenzione e la preoccupazione su di sé e sul proprio stato. Non mi riferisco allo stato fisico e a questioni di salute fisica. Probabilmente chi subisce l'attacco di panico tende abitualmente per orientarsi e per capire a affidarsi a altro che non siano i suoi vissuti, le sue sensazioni vere, a accontentarsi di ipotesi e di tesi costruite col  ragionamento, in apparenza coerenti e verosimili, a cercare sponda in idee e comportamenti comuni, vuoi aderendo e conformandosi ad essi, vuoi provando a differenziarsi, trovando comunque sempre supporto, anche se in contrapposizione, in altro da sè già concepito, cercando confronto e intesa con altri piuttosto che con se stesso, con la propria interiorità. Si muove seguendo un'idea di vita e di autorealizzazione date per acquisite, prese comunque da fuori e non cercate e maturate dentro se stesso. Segue e asseconda più l'interesse e l'istanza di stare al passo con altri, di tenere a bada e di rendersi favorevole lo sguardo altrui, che di cercare il proprio, di non perdere terreno piuttosto che di fermarsi a capire, ascoltando e coinvolgendo tutto il proprio essere. Non mette al primo posto, non concepisce come essenziali e necessarie, né la vicinanza e l'intesa con se stesso, con la parte intima, profonda di sé, né la ricerca del proprio sguardo fondato sull'ascolto e sulla comprensione attenta del proprio sentire. Chi subisce l'attacco di panico crede che basti ciò che racconta a se stesso di sapere di sé e della propria vita, in apparenza credibile e pertinente, in realtà più raffazzonato e fatto di supposizioni che compreso in profondità e con rispondenza piena con ciò che sente, che vive dentro se stesso. Non per tutto il suo essere però conta e basta ciò che l'individuo vuole continuare a illudersi di sapere, ciò che continua imperterrito a inseguire, a fare, a ripetersi in testa. Per una parte di se stesso questa maschera di sapere e questa parvenza di vita propria, altra e lontana da ciò che di vero potrebbe conoscere e da ciò che potrebbe far nascere da sè, non è certo un bene da difendere a denti stretti. Per il profondo è rilevante e inaccettabile la condizione di lontananza dell'individuo da se stesso, di separazione e di sconnessione dal proprio intimo, di rinuncia a cercare risposte vere e fondate su di sé, a conoscere prima e a far vivere poi il proprio. Insomma, proseguire come d'abitudine ritenendolo sufficiente e normale è una cosa, capire e vedere nitidamente come si sta procedendo, cosa c'è o non c'è di proprio, di scoperto e generato da sé in ciò che si fa, verificare cosa realmente si conosce di se stessi, cosa si sta facendo della propria vita, è un'altra. Individui giovani, che non di rado, come dicevo all'inizio, patiscono attacchi di panico, hanno il problema di quanto sono equipaggiati o meno di consapevolezza e di sguardo proprio, di comprensione di ciò che vogliono tradurre e realizzare nel loro futuro. Il rischio, privi ancora di capacità di incontro e di dialogo con la loro interiorità, facendo leva per capire, per capirsi solo sul ragionamento, che lavorando da solo, senza stretto legame e guida del sentire, non dà capacità di vedere dentro sé, ma solo di ripetere e di rimasticare il già detto e comunemente concepito, è di farsi portare e di andar dietro a guide esterne, di uniformarsi a idee e a modelli prevalenti. Il rischio, ignari di ciò che da se stessi potrebbero trarre e far vivere di originale e di sentito, digiuni di conoscenza propria, fondata e vera, è di mal intendere e di fallire gli scopi della loro vita, pur con l'illusione di essere attivi e autonomi nel formare e nel governare le loro idee e scelte. E' un rischio di non trascurabile importanza, è un rischio non certo trascurato dal loro profondo. Perciò il loro inconscio interviene, interferisce, dando segnali forti, perentori, capaci di bloccare e di rendere insostenibile l’abituale corso e modo di procedere che punta tutto all’esterno, segnali che, per la loro potenza e invasività, non vogliono essere assolutamente ignorati e messi da parte. Nulla di ciò che accade interiormente avviene per caso. In presenza di malessere interiore, seppure nella forma drammatica e sconquassante degli attacchi di panico, leggere e spiegare tutto in termini di disturbo, di anomalia di funzionamento, di meccanica conseguenza di sovraccarico di tensione da cause esterne aiuta solo a non capire nulla, a stravolgere il senso delle cose. Cercare e ricevere come aiuto sul piano psicologico quello di attrezzarsi nella difesa dalla paura montante fino al panico e perseguire come scopo il superamento dell’attacco o degli attacchi per tornare, come fosse il traguardo più ovvio e desiderabile, allo stato solito e al consueto modo di procedere, significa non intendere il significato e la finalità di ciò che drammaticamente è accaduto, che peraltro spesso ha un seguito e che lascia una scia che non si dissolve. Dentro di noi c'è una parte profonda, ben più interessata, piuttosto che alla difesa e alla prosecuzione dell'abituale, a cosa di noi stessi stiamo e sapremo realizzare o meno, a quanto siamo vicini e coerenti con noi stessi, a quanto di idee nostre abbiamo coltivato e generato davvero e non semplicemente finto di possedere, in realtà ripetendo modi e atteggiamenti, risposte e valori comuni. Se l'attacco di panico alimenta in modo improvviso e impetuoso l'allarme sulla prosecuzione della vita, del regolare battito cardiaco, del respiro, se catapulta nella paura di ciò che imprevedibile potrebbe accadere, è per far capire che non c'è solidarietà interna, della propria parte profonda verso l'andare avanti nel solito modo, è per fare toccare con mano lo stato di non unità con se stessi. L'attacco di panico non è una sciagura o una patologia da vincere, è un potentissimo richiamo da ascoltare e da capire, da prendere sul serio per il proprio vero bene.