venerdì 1 settembre 2017
Non mente mai
domenica 6 agosto 2017
Con le buone o con le cattive
In presenza di malessere interiore si verifica un
conflitto tra la componente cosiddetta conscia dell'individuo, tutta
sbilanciata dalla parte di ciò che crede di conoscere e su cui è abituata a
fare leva, protesa a difenderne la continuità e a far valere lo status quo e la
sua interiorità, la parte intima e a fin di bene, perché non accada il peggio.
Il peggio per l'individuo è di procedere illuso di sapere e di conoscere ciò
che va difeso a oltranza e mantenuto nel proprio interesse, in realtà senza
capire cosa sta davvero facendo di se stesso, in realtà senza ancora aver
conosciuto nulla di se stesso e del proprio potenziale. In questa situazione di
conflitto, in cui la parte profonda, aprendo la crisi, spinge perché si produca
un profondo quanto salutare cambiamento, in cui col malessere preme perché
l'individuo si coinvolga per intero, ceda a far sua questa necessità di
trasformazione, ne prenda coscienza e cooperi per produrla, accade invece che
l'individuo, ignaro di questi perché del malessere, di queste ragioni della
propria interiorità, convinto di sapere già con certezza cosa va affermato e
mantenuto, si aspetti in genere che a cambiare debba essere la propria
interiorità, che sia pronto a battersi per ottenere questo. L'individuo in
genere auspica, persuaso di avere tutte le ragioni dalla sua, che la sua
interiorità, che insiste nel proporre qualcosa di interiormente difficile e
sofferto, si rimetta in riga, smetta di dare fastidi e tormento, smetta di
intralciare. Anzi l'individuo vorrebbe che le proprie risposte interiori
fossero concordi e solidali, di appoggio e non di ostacolo al suo sforzo, alla
sua pretesa di perseguire i risultati e le prestazioni giudicate normali
e positive secondo modelli e idee comuni. Con le buone o con le cattive. C'è
chi trova che evadere e non dare peso, non concedersi alla presa del malessere
e non esserne impensieriti, sia la scelta giusta e vantaggiosa. E' come dire a
se stessi, alla propria interiorità: tu mi rompi e insidi la mia tranquillità e
buon umore, ostacoli la mia voglia di procedere indisturbato, il mio diritto di
stare bene e io ti ignoro, non ti do peso. C'è chi, vedendosela brutta, perché
l'interiorità sa essere cocciuta, cerca nei farmaci, previo il verdetto di
qualche psichiatra o figura simile, che con la diagnosi, con l'apposizione di
una etichetta dia l'illusione che sul (presunto) guasto ci sia finalmente una presa
sicura, lo strumento per zittire e per raddrizzare la parte di sé che non vuole
tacere. C'è chi ancora cerca una terapia psicologica, che, come quelle di tipo
cognitivo comportamentale, oggi assai in voga, prometta di aggiustare presto le
cose, affidandosi a chi diriga e impartisca istruzioni e schemi di nuovo
comportamento, tecniche per imbrigliare o per correggere quelle che paiono
soltanto anomale risposte, paure di troppo e assurde, strani grovigli, cadute
di fiducia inspiegabili e nocive. Tecniche terapeutiche, a volte dai nomi
suggestivi e catturanti, che parlano di strategie e di modifiche in tempi brevi
dei modi di pensare e di reagire, giudicati sbagliati, in gergo tecnico
"disfunzionali", sembrano il toccasana, il sostituto del rimedio
chimico, ma per ottenere il più in fretta possibile lo stesso risultato: porre
fine a esperienze interiori che sembrano solo una sciagura e un modo guasto di
sentire, di reagire, di vivere, ottenere che tutto giri nel verso giudicato
sano e positivo. Per finire c'è chi, disposto a seguire un cammino di ricerca
più impegnativo, vorrebbe essere aiutato a trovare la causa del suo malessere,
partendo sempre, né più né meno di chi ha scelto le strade dette prima, dal
presupposto che la propria esperienza interiore stia dando segni di guasto e di
malfunzionamento. La causa sarebbe quel fattore x, preferibilmente rinvenibile
nel proprio passato, che nella forma di un cattivo condizionamento, di una
influenza negativa, di un affetto negato o esercitato in modo distorto da
familiari o simili, di un trauma, avrebbe inceppato e reso anomalo il proprio
sviluppo, lasciato tracce e conseguenze ancora presenti. Insomma l'idea di
fondo è che tutto avrebbe dovuto svolgersi e svilupparsi regolarmente e bene e
che qualcosa abbia scassato il meccanismo. L'idea è che nell'esperienza
interiore disagevole di oggi ci siano i segni di un torto patito, che ci
siano i modi di rispondere emotivi dettati e insiti in esperienze negative
trascorse, che tendono a ripetersi, a permanere. Trovata la causa pare trovata
la via di uscita, l'occasione per liberarsi di quelle reazioni e risposte
emotive, per saldare il conto, per affrancarsi finalmente da quelle ombre del
passato, per mettere a tacere il proprio malessere interiore. Poco importa che
(succede in non poche psicoterapie che vorrebbero definirsi di tipo analitico),
dopo aver trovato la causa, cosa che se da un lato fa contento lo
psicoterapeuta, che può dimostrare di aver saputo svolgere il suo compito,
dall'altro pare dare sollievo immediato all'individuo in terapia, che può dirsi
che ora sa, che ha capito, che è andato finalmente alla radice del problema,
accada non raramente che la sua esperienza interiore continui a riservargli la
sgradita presenza di una inquietudine, di un malessere che non demorde, che
ancora la sua esperienza viva interiore rimanga ai suoi occhi alla fin fine
qualcosa di scomodo e fastidioso da fronteggiare. A questo punto la risposta
dell'individuo, la sua auto rassicurazione è che ora potrà gestire meglio le
sue emozioni, le sue esperienze interiori. Gestire come si gestisce un
meccanismo, una cosa appunto, da tenere a bada. La scoperta della causa gli
fornisce il mezzo per rispondere all'esperienza interiore difficile con un
atteggiamento del tipo: adesso so perché sento questa ansia, so perché reagisco
così, non perderò il controllo, aspetterò che si moderi, cercherò di
conviverci. In sostanza accade che, dal momento della individuazione della
presunta causa, al proprio sentire si metta sopra una spiegazione fissa, la
spiegazione di causa e effetto elaborata in psicoterapia, senza ascoltarlo ogni
volta in ciò che ha da dire, che vuole rendere tangibile e riconoscibile in
quel momento, cosa peraltro che non gli è stata concessa e garantita
neppure nella fase della ricerca della causa. In questi casi, non certo
rari, il rapporto con se stessi non è cambiato, da un lato c'è il ragionamento
che ha sistemato le sue idee e convinzioni, illuso di avere chissà quale nuova
consapevolezza e dall'altro continua a esserci un'interiorità con cui permane
incapacità di apertura, di sintonia e di incontro, con cui non c'è dialogo e
confidenza. Ancora c'è un sentire, il proprio sentire, che in ciò che dice
continua a non essere ascoltato, a essere spiegato con formule rigide, a non essere
compreso nel suo linguaggio, in ciò che vuole fare toccare con mano e
conoscere, in ciò che vuole comunicare. Ahimè l'interiorità in un caso o
nell'altro, presa con le buone o con le cattive, continua a essere oggetto di
incomprensione e della pretesa che in qualche modo cambi, che si
"aggiusti", che si normalizzi. E' davvero un paradosso, la propria
interiorità è la parte del proprio essere, tutt'altro che scriteriata e
inaffidabile e da tenere a bada, che, se compresa, potrebbe come è nelle sue
intenzioni (col sentire, con tutti gli svolgimenti interiori, non certo
insensati, con i sogni) guidare, con fermezza, lucidità e saggezza, al
cambiamento, che vorrebbe dare linfa, spinta e occasione per avvicinarsi a sé,
per conoscersi davvero e apertamente, per vedere con i propri occhi e non
attraverso la lente dei giudizi convenzionali e comuni, per trovare le proprie
ragioni d'esistenza, per trasformare il proprio pensiero da astratto e
convenzionale a pensiero vivo, originale e fondato e invece... Invece si chiede
proprio alla parte interiore di sé, la più preziosa, valida e capace, di
mettersi in riga, di ritornare finalmente a uno stato di "normale"
funzionamento, lasciando l'altra parte in pace e libera di proseguire, non
importa se, in assenza di guida propria, a rimorchio di idee, di schemi e di
valori presi in prestito e preconfezionati, con l'illusione di sapere e di
decidere, in realtà senza comprensione dei significati veri insiti nelle
proprie esperienze, senza verifica e scoperta di ciò che per sé vale davvero,
senza conoscenza profonda di se stessi e di ciò che di sé vorrebbe vivere e
realizzarsi. L'interiorità che potrebbe ridare all'individuo la sua vera
identità e il suo bagaglio di idee e di passioni autentiche e fondate, che
potrebbe condurlo a trovare, a generare tutto ciò che gli manca per essere
individuo completo e autonomo, deve solo tacere e mettersi in riga. Con le
buone o con le cattive, perché le cose rimangano quelle di sempre, normali,
regolari, in buona intesa con altri e con tutto, fuorché con se stessi.
domenica 16 luglio 2017
Felicità rubata? Incapacità di essere felici?
domenica 25 giugno 2017
Controcorrente
domenica 26 febbraio 2017
Ancora sugli attacchi di panico
Ho già scritto in passato sugli attacchi di
panico, ma, vista la frequenza con cui simili esperienze si propongono, anche e
non casualmente in individui giovani, provo a riprendere l'argomento per
tornare a dare, tratto da lunga pratica analitica, qualche spunto di
riflessione. Chi subisce un attacco di panico auspica soltanto che non si
ripeta, vuole tornare al più presto alla normalità, al consueto, anche se si
sente molto segnato da un'esperienza così estrema, anzi continuamente si sente
in apprensione, sul chi va là per la possibile ripetizione dell'attacco. In
realtà all'attacco di panico non vuole dare retta, non ha come primo interesse
quello di capire cosa significhi, a che scopo si sia prodotta dentro di sè una
simile esperienza. Il fatto che abbia avuto un carattere così sconvolgente, che
abbia investito il corpo in modo così forte e significativo, favorisce l'idea
che sia stato un guasto, un evento anomalo assai temibile, una pericolosa
minaccia da scongiurare e da debellare. Dopo l'attacco le indagini cercate con
insistenza sul terreno medico, con esami clinici innumerevoli, con visite
specialistiche varie, con test diagnostici ripetuti, alla ricerca di
disfunzioni e di patologie possibili, vorrebbero da un lato scongiurare
l'esistenza di gravi problemi organici e dall'altro soddisfare l'attesa di
scovare cause ben definite e circoscrivibili, utili per riuscire a ridurre a
problema fisico e a dominare in qualche modo, a porre sotto controllo
un'esperienza così inquietante e misteriosa. La lontananza perdurante, anche se
poco o nulla considerata importante, dal proprio intimo e l'incomprensione
abituale della propria esperienza interiore, non aiutano certo chi lo vive a intendere
l'attacco di panico come esperienza significativa, non nociva o semplicemente
distruttiva, come potrebbe apparire, ma necessaria e con un senso, utile e
propositiva nelle intenzioni del profondo che la scatena. Se qualcosa dentro di
sé fa la voce grossa e ricorre alle maniere forti è infatti per far sì che si
porti l'attenzione e la preoccupazione su di sé e sul proprio stato. Non mi
riferisco allo stato fisico e a questioni di salute fisica. Probabilmente chi
subisce l'attacco di panico tende abitualmente per orientarsi e per capire a
affidarsi a altro che non siano i suoi vissuti, le sue sensazioni vere, a
accontentarsi di ipotesi e di tesi costruite col ragionamento, in
apparenza coerenti e verosimili, a cercare sponda in idee e comportamenti comuni,
vuoi aderendo e conformandosi ad essi, vuoi provando a differenziarsi, trovando
comunque sempre supporto, anche se in contrapposizione, in altro da sè già
concepito, cercando confronto e intesa con altri piuttosto che con se stesso,
con la propria interiorità. Si muove seguendo un'idea di vita e di
autorealizzazione date per acquisite, prese comunque da fuori e non cercate e
maturate dentro se stesso. Segue e asseconda più l'interesse e l'istanza di
stare al passo con altri, di tenere a bada e di rendersi favorevole lo sguardo
altrui, che di cercare il proprio, di non perdere terreno piuttosto che di
fermarsi a capire, ascoltando e coinvolgendo tutto il proprio essere. Non mette
al primo posto, non concepisce come essenziali e necessarie, né la vicinanza e l'intesa
con se stesso, con la parte intima, profonda di sé, né la ricerca del proprio
sguardo fondato sull'ascolto e sulla comprensione attenta del proprio sentire.
Chi subisce l'attacco di panico crede che basti ciò che racconta a se stesso di
sapere di sé e della propria vita, in apparenza credibile e pertinente, in
realtà più raffazzonato e fatto di supposizioni che compreso in profondità e
con rispondenza piena con ciò che sente, che vive dentro se stesso. Non per
tutto il suo essere però conta e basta ciò che l'individuo vuole continuare a
illudersi di sapere, ciò che continua imperterrito a inseguire, a fare, a
ripetersi in testa. Per una parte di se stesso questa maschera di sapere e
questa parvenza di vita propria, altra e lontana da ciò che di vero potrebbe
conoscere e da ciò che potrebbe far nascere da sè, non è certo un bene da
difendere a denti stretti. Per il profondo è rilevante e inaccettabile la
condizione di lontananza dell'individuo da se stesso, di separazione e di
sconnessione dal proprio intimo, di rinuncia a cercare risposte vere e fondate
su di sé, a conoscere prima e a far vivere poi il proprio. Insomma, proseguire
come d'abitudine ritenendolo sufficiente e normale è una cosa, capire e vedere
nitidamente come si sta procedendo, cosa c'è o non c'è di proprio, di scoperto
e generato da sé in ciò che si fa, verificare cosa realmente si conosce di se
stessi, cosa si sta facendo della propria vita, è un'altra. Individui
giovani, che non di rado, come dicevo all'inizio, patiscono attacchi di panico,
hanno il problema di quanto sono equipaggiati o meno di consapevolezza e di
sguardo proprio, di comprensione di ciò che vogliono tradurre e realizzare nel
loro futuro. Il rischio, privi ancora di capacità di incontro e di dialogo con
la loro interiorità, facendo leva per capire, per capirsi solo sul
ragionamento, che lavorando da solo, senza stretto legame e guida del sentire,
non dà capacità di vedere dentro sé, ma solo di ripetere e di rimasticare il
già detto e comunemente concepito, è di farsi portare e di andar dietro a guide
esterne, di uniformarsi a idee e a modelli prevalenti. Il rischio, ignari di
ciò che da se stessi potrebbero trarre e far vivere di originale e di sentito,
digiuni di conoscenza propria, fondata e vera, è di mal intendere e di fallire
gli scopi della loro vita, pur con l'illusione di essere attivi e autonomi nel
formare e nel governare le loro idee e scelte. E' un rischio di non
trascurabile importanza, è un rischio non certo trascurato dal loro profondo.
Perciò il loro inconscio interviene, interferisce, dando segnali forti, perentori,
capaci di bloccare e di rendere insostenibile l’abituale corso e modo di
procedere che punta tutto all’esterno, segnali che, per la loro potenza e
invasività, non vogliono essere assolutamente ignorati e messi da parte. Nulla
di ciò che accade interiormente avviene per caso. In presenza di malessere
interiore, seppure nella forma drammatica e sconquassante degli attacchi di
panico, leggere e spiegare tutto in termini di disturbo, di anomalia di
funzionamento, di meccanica conseguenza di sovraccarico di tensione da cause
esterne aiuta solo a non capire nulla, a stravolgere il senso delle cose. Cercare
e ricevere come aiuto sul piano psicologico quello di attrezzarsi nella difesa dalla
paura montante fino al panico e perseguire come scopo il superamento dell’attacco
o degli attacchi per tornare, come fosse il traguardo più ovvio e desiderabile,
allo stato solito e al consueto modo di procedere, significa non intendere il
significato e la finalità di ciò che drammaticamente è accaduto, che peraltro
spesso ha un seguito e che lascia una scia che non si dissolve. Dentro di noi
c'è una parte profonda, ben più interessata, piuttosto che alla difesa e alla
prosecuzione dell'abituale, a cosa di noi stessi stiamo e sapremo realizzare o
meno, a quanto siamo vicini e coerenti con noi stessi, a quanto di idee nostre
abbiamo coltivato e generato davvero e non semplicemente finto di possedere, in
realtà ripetendo modi e atteggiamenti, risposte e valori comuni. Se l'attacco
di panico alimenta in modo improvviso e impetuoso l'allarme sulla prosecuzione
della vita, del regolare battito cardiaco, del respiro, se catapulta nella
paura di ciò che imprevedibile potrebbe accadere, è per far capire che non c'è
solidarietà interna, della propria parte profonda verso l'andare avanti nel
solito modo, è per fare toccare con mano lo stato di non unità con se stessi.
L'attacco di panico non è una sciagura o una patologia da vincere, è un
potentissimo richiamo da ascoltare e da capire, da prendere sul serio per il
proprio vero bene.