domenica 25 novembre 2018

Fa male tenersi tutto dentro?

Nel rapporto con le emozioni e con le esperienze interiori è assai diffusa la convinzione che sia prioritario dare loro espressione, esternarle. Si ha fretta di farlo, si pensa che con le emozioni non ci sia altro che da manifestarle, da agirle e da tradurle presto in gesti e parole, come se il significato e lo scopo di tutto di ciò che si prova fossero scontati e immediatamente comprensibili. Non manifestare ciò che si sente sarebbe un'insufficienza, vanificherebbe il senso e il valore di ciò che si prova, che si muove dentro se stessi. Se poi l'esperienza interiore è particolarmente impegnativa, insistita e complicata  nei suoi svolgimenti e sofferta, l'istanza di non tenersi tutto dentro diventa ancora più imperiosa. L'idea comune è che tenersi dentro sensazioni e complessi e tribolati stati d'animo sarebbe negativo, nuocerebbe a se stessi. Si potrebbe in realtà rovesciare la questione. Mettere fuori ciò che si sente, senza averlo ascoltato e intimamente compreso, cosa niente affatto rara, addossandogli un significato e un'intenzione che si danno per scontati, che si fanno rientrare nel già conosciuto, senza però vera corrispondenza col suo originario scopo e proposito, significa svuotarsi malamente e impoverirsi di contenuti preziosi per la conoscenza di se stessi, significa travisare ciò che si sta vivendo e portarsi fuori strada. Il sentire, le emozioni, gli stati d'animo non sono moti elementari, non sono l'eco interna e la conseguenza banale di questo o di quello, il sentire è guida intelligente, è testimonianza viva di una verità affatto scontata, che razionalmente non si ha né capacità, né spesso voglia di comprendere. Il sentire è voce della parte profonda del proprio essere, che interviene nel corso dell'esperienza per svelare, per indurre a fermarsi su se stessi, per capire ciò che nella visione solita è oscurato, semplificato, spesso distorto. Perciò il sentire chiede e merita ascolto, invita all'incontro e al dialogo intimo con se stessi, il sentire segna interiormente, imprime i suoi segni perché ci si orienti, perché si aprano gli occhi e si abbia il coraggio di prendere consapevolezza. Il sentire impegna a comprendere, a trovare e a tessere un filo affatto usuale e banale. L'ascolto, la riflessione, lo sguardo capace di vedere ciò che il sentire sottolinea, imprime con l'intento di condurre per intima esperienza a aprire gli occhi, sono la risposta congrua a ciò che interiormente si vive, si sperimenta. Il dialogo dev'essere prima di tutto interiore, non è l'esternazione quella che urge, al sentire, alla proposta del profondo va offerta la propria disponibilità a accoglierla, la propria attenzione, il proprio ascolto. Mettere fuori rapidamente, esternare non possono essere le priorità. Prima si ha necessità di intrattenersi col proprio sentire per intenderlo in ciò che vuole dire e condurre a scoprire, senza fretta, senza paura che questo nuoccia. Solo l'inconsapevolezza nuoce. Il problema è imparare a avvicinare e a comprendere l'esperienza interiore, formare e sviluppare capacità di ascolto e riflessiva che permetta di intendere fedelmente e di valorizzare ciò che il proprio sentire offre e propone. Mettere fuori, manifestare e comunicare ad altri, tradurre tutto in ragionamenti messi sopra il proprio sentire, scaricare in chiacchiera e sfogo ciò che si prova è una cosa, ascoltare con partecipazione e con pazienza,  rispettare e comprendere il linguaggio interiore, badando a non equivocare e a non sciupare la propria intima esperienza, sono un'altra.

giovedì 1 novembre 2018

La trappola della idea di malattia

La patente di malato con la sua bella etichetta diagnostica, spesso invocata da chi vive una condizione di sofferenza interiore, per confermarsi vittima di ciò che sta provando, per porlo in stato di quarantena e di controllo come fosse un morbo di cui liberarsi, una minaccia da cui difendersi e da rendere bersaglio di presunte cure che la combattano e che la facciano fuori, è in realtà la via maestra per portare a compimento la propria dissociazione, per destinarsi a rigida chiusura verso la propria interiorità. La vita interiore non risponde alle attese e alle pretese di regolare funzionamento così come concepito dal senso comune, così come auspicato dalla parte razionale dell'individuo, che, se chiusa al dialogo con la componente intima e profonda, non fa altro che rigirarsi nel pensato comune, unica fonte, unica ispiratrice dei propri pensieri. La vita interiore è lo specchio e la traduzione in essere dell'intelligenza profonda. Dentro di noi c'è una parte tutt'altro che sprovveduta che tiene conto nell'esperienza non delle apparenze ma della sostanza, non della superficie ma del dentro, che coglie e riconosce ciò che muove ogni gesto e ogni azione, che anima ogni risposta, che non trascura di riconoscere il vero dell'esperienza, che non è incline a coprire, ma a svelare, che non ha come suo intento cavarsela e risolvere, ma capire, non ottenere risultati, ma riconoscerne la qualità vera, la conformità a se stessi. Che lo si voglia o no, che lo si sappia o no, c'è una parte intima e profonda del proprio essere che non è gregaria del rimanente, che ha forte tempra e autonomia, che insiste nel dare segnali utili e essenziali per calarsi nel vero, per non stare nell'illusorio, per non barricarsi nella consapevolezza truccata e di comodo, nell'idea di se stessi che ha più sostegno nello sguardo comune che nel proprio. E' la parte di se stessi che ha più vicinanza con le proprie intime ragioni d'esistenza, con il proprio potenziale da coltivare e sviluppare, che vuole crescita e formazione di pensiero vero e fondato, autonomo e di sostanza e non spiantato anche se ben congegnato come quello usuale e ragionato. Quella profonda è la parte di se stessi che non si lascia incantare dalle inventive e dai prodotti a volte tanto ingegnosi quanto sterili del ragionamento, che non si fa tirare e portare da suggeritori esterni più o meno manifesti, che sa vedere la pochezza di essere individuo realizzato secondo canoni comuni, ma gregario e passivo nell'aver fatto propria un'idea di vita e di riuscita già concepita e altra da se stesso. La componente profonda del proprio essere non è della partita e della corsa a fare ciò che secondo altri e secondo idea prevalente è il meglio o è il possibile della vita. La parte profonda scuote e agita le acque interiormente per sollevare il problema del proprio muoversi senza aver mai cercato radice dentro se stessi, del proprio blaterare e dell'affannarsi a inseguire, a riprodurre, a stare dentro un'idea di vita che non ha nulla di vicino, di scaturito da se stessi. Tutta la inquietudine e il malessere interiore, con le sue diverse espressioni che in molti, che si sono definiti portatori di pensiero scientifico, hanno preferito catalogare e etichettare per sottoporle a trattamenti che le contrastassero e che le raddrizzassero, ma che, se sapute intendere, segnalano puntualmente la fisionomia del proprio modo di condursi, la problematica dell'essere lontani da contatto, da capacità di rapporto e di dialogo con se stessi, è e vuole essere invito fermo a fermarsi per capire, per capirsi, riconoscendo questa come la priorità. La priorità non è spingersi avanti come se tutto di se stessi fosse implicitamente valido e scontato, non è avere a cuore i risultati soliti e contingenti, ma è finalmente prendere visione di come si sta interpretando e svolgendo la propria vita, su che basi e guidati da cosa. La priorità, secondo la parte profonda di se stessi,  è rendersi conto che, amputati di un rapporto aperto e fecondo col proprio intimo, non si è niente e nessuno, si è solo ciò che sta dentro una parte e un'idea già confezionata, che senza il supporto dello sguardo e del consenso comune non starebbe in piedi. Al profondo di se stessi preme che non si arrivi al capolinea della vita senza aver capito nulla, senza aver provato a sostituire l'illusione con la sostanza, la maschera dell'esistenza con un'esistenza con il proprio volto, la vita secondo altri con la vita propria, il pensiero rimasticato e nel coro col proprio finalmente cercato, coltivato e messo al mondo.

venerdì 21 settembre 2018

La lingua batte dove il dente duole. La gelosia

Non è facile, non è affatto usuale riuscire a capire, a intendere correttamente le espressioni della vita interiore. Alla nostra interiorità interessa portare ogni volta la nostra attenzione su questioni e su nodi imprescindibili, da non nascondere e da non eludere dove ponessimo al centro della nostra vita la necessità di capirci e di crescere in consapevolezza e autonomia. Quando la nostra interiorità sembra stringerci d'assedio, procurarci senza risparmio motivi di turbamento e di inquietudine, tenere vive in noi sensazioni e pensieri non piacevoli, è frequente che le si contrapponga il timore che queste esperienze e stati interiori possano farci solo danno, che abbiano un che di eccessivo, di insensato, perciò di anomalo, che il nostro ragionare valuta tale. Il pensiero razionale però è limitato, lavora al buio delle implicazioni più vere e profonde delle nostre scelte, del nostro modo di procedere, il ragionamento è la risposta della parte di noi stessi che vuole che ci sia quiete, conferma e stabilità a prescindere. Considero un esempio, particolarmente impegnativo e arduo, come quello della gelosia. Lo considero al maschile verso una donna, ma non è esperienza e questione esclusiva, dunque analoga riflessione andrebbe aperta per una donna verso un uomo e ovunque nelle diverse relazioni possibili. La gelosia può essere assecondata ciecamente e fatta valere da chi la vive come semplicemente naturale, come diritto e pretesa di controllo e di padronanza sulla vita altrui, è il caso peggiore e nemmeno purtroppo raro. Considero qui l'esperienza della gelosia di chi la vive con tormento e con disagio, con la percezione che sia una pena, un che di ingrato e corrosivo, di lesivo, oltre che di prepotente. Se si viene alle strette con sensazioni dolorose e sgradite come quelle della gelosia, che larvatamente ha comunque dato già ripetuti segnali in tante altre occasioni e momenti, gelosia che alimenta sospetti, che può spingere a frugare in ogni dove della vita dell'altra, anche del suo passato, che alimenta la pretesa di esclusività, è forse per rendere tangibile il legame di dipendenza che si è stabilito. Il fondamento della dipendenza è la consegna a un'altra persona della funzione di procurare a se stessi qualcosa di vitale e necessario che da soli non si è cercato dentro di sè, che non ci si è preoccupati di formare e di sviluppare, di cui ancora non si dispone. Il legame dipendente con l'altra persona, spesso e volentieri ignorato, a volte addirittura celebrato (non posso vivere senza di te, ho bisogno di te, sei la mia metà ecc.), consente di colmare quel vuoto, anche se lo fa in una forma che da un lato non coincide certamente con ciò che si potrebbe generare da sè, consono e fedele a se stessi e che dall'altro non consente di esercitarlo in libertà e a proprio modo. Cosa ha dato e dà in misura e forma più o meno forte e persuasiva la presenza dell'altra? Attenzione, vicinanza, affetto, calore, premura, predilezione per se stessi, che fa sentire scelti, comunque oggetto di cura, accettati, valorizzati? E' da lei che sembra di sentirsi capiti intimamente, che si credono comprese le proprie necessità, è lei che sembra farsene interprete? E' lei a rappresentare il bello, un che di prezioso, che sembra portare nella propria vita una luce di valore, di felicità? Quel che voglio far capire è che il nodo della dipendenza, del farsi dare da altri qualcosa di essenziale e di irrinunciabile, che potrebbe, che anzi dovrebbe, per essere individui pienamente e non in forma amputata, prendere forma e sviluppo dentro se stessi, potrebbe essere ciò che la gelosia vuole arrivare a evidenziare, a porre acutamente al centro della propria attenzione. Sapersi avvicinare a se stessi, sapersi ascoltare e capire in ciò che si sente, nelle proprie emozioni, nei propri stati d'animo, sviluppare capacità di incontro e di dialogo con se stessi, creare vera vicinanza e intimità, calda intimità con la propria interiorità, da cui invece abitualmente si fugge (temendo che ciò che vive dentro se stessi sia a volte troppo disagevole, altre volte giudicando che sia vuoto e in nulla promettente, non degno, come invece i richiami e le opportunità esterni, di essere cercato, coltivato e valorizzato), coltivare e dare vita a qualcosa che sia ricchezza intima che non svanisce, sentita vicina e consona, non comprata, non presa da altro e da altri, tutto questo o si decide di coltivarlo, di farlo crescere e di darselo da sè, considerandolo fondamento essenziale della propria completezza di individuo e della propria autonomia (autonomia vera e non di facciata, cui basta un pò di vetrina e di consenso esterno per stare in piedi) o altrimenti si rischia di farselo dare, in qualche modo, da un'altra persona, da cui poi si dipende, che si vorrebbe tenere legata a sé in modo esclusivo, come fosse una parte vitale di se stessi. Un rapporto che non poggi sulla completezza di individuo non raramente, anzi quasi fatalmente si incardina sulla dipendenza. La risposta interiore non si fa attendere, la componente interiore e profonda non è inerte e segnala puntualmente lo stato delle cose, il nodo da vedere e da sciogliere. Si dice che la lingua batte dove il dente duole, è un detto che potrebbe essere utile per capire ragioni e senso di ciò che nel vissuto di gelosia, così incalzante e pervasivo, pare solo una insana ossessione. La parte profonda di noi stessi, che in genere non è né compresa né apprezzata in ciò che determina e che dice, anzi in genere neppure si sa che esiste come presenza affidabile e intelligente, ha una parte decisiva in tutto ciò che sentiamo e che succede dentro di noi. Nulla dentro di noi è casuale, non c'è emozione, vissuto, non c'è svolgimento interiore, più o meno complesso, che non sia regolato, modulato, fatto esistere, in quella forma e con quella intensità particolare, dal nostro profondo. Ogni stato d'animo e sensazione non è conseguenza semplice e automatica di altro, di una causa che dall'esterno la determina, ma è plasmato dal profondo, è iniziativa e segnale originato da dentro di noi, rivelatore sempre di qualcosa di noi stessi, capace di avvicinarci alla conoscenza di noi stessi. Si giudica tutto in termini di normalità, di rispetto di presunti canoni di sensatezza codificati. Ciò che ci accade non è insensato o fuori regola e misura  se non secondo le regole della cosiddetta normalità. Bisogna tener conto che il nostro essere non è delimitato e non si riduce a volontà e a razionalità con qualche accessorio secondario, cosiddetto irrazionale, ma che risiede anche e prima di tutto nella parte profonda di noi stessi, cui, saggiamente, ostinatamente anche, interessa evidenziare nodi veri, questioni decisive su cui si gioca la nostra vera possibilità di  crescita e di autonomia. Solo mettendo al primo posto nel rapporto con l'esperienza interiore, quando difficile e sofferta, non l'istanza liberatoria o normalizzatrice, ma l'intento fermo di capire, di capirsi, di trovare la verità di se stessi, solo scegliendo di non far ricadere su altri le cause, le colpe, ma di porre invece se stessi al centro delle responsabilità inerenti la propria vita, riconoscendo dentro di sè l'origine e la matrice di tutto ciò che si prova, si può rendere fecondo lo scambio con la propria interiorità, che non tace, che spinge l'attenzione sui punti caldi, che vuole che non ci sia ignoranza o ipocrisia, ma consapevolezza, crescita senza risparmio di intelligenza e di coraggio.


giovedì 13 settembre 2018

La scelta

Patire e non capire, non comprendere cosa il proprio intimo sentire dice, questo è il vero e fondamentale problema per chi vive un'esperienza di malessere interiore. Non si è preparati e abituati a comunicare con l'interno, con la propria interiorità, ma solo ad adattarsi e a sintonizzarsi con l'esterno, a farsi dare da lì guide di senso comune per dirigersi e per spiegare il significato delle cose e delle esperienze. Quando si è messi alle strette da qualcosa di interiormente difficile e doloroso, che ha aspetto poco confortante e insolito, fioccano subito sul conto del proprio sentire (prima di tutto da parte propria) i commenti negativi, sale alta la sfiducia e persino la disperazione. E' necessario imparare a ascoltare e a comprendere ciò che il proprio sentire dice, a trarre da lì materia, insostituibile e preziosa, per conoscersi e per capire. Spesso serve un aiuto per imparare ad orientarsi nel mondo interno, dove si è in genere smarriti e totalmente ignari. Nulla nell'esperienza interiore, anche nelle sue espressioni più dolorose, sconquassanti o "contorte", è fallimentare o dannoso, nulla è semplicemente abnorme o malato, tutto ha un senso, anzi un'utilità. Sempre infatti il proprio sentire, il proprio corso interiore d'esperienza, vuole evidenziare e rivelare aspetti di se stessi e questioni decisive, vuole e può condurre a vedere, a capire, a prendere coscienza, se saputo leggere con attenzione e fedelmente, se non marchiato, per paragone con una presunta normalità, come patologico in un verso o in un altro, con un'etichetta diagnostica piuttosto che con un'altra. Quello del sentire è un linguaggio, non freddo e, nella conoscenza di se stessi, non certamente spiantato (come spesso lo è quello razionale), ma fedelmente corrispondente a se stessi, con radice viva e vera. E' un linguaggio incisivo e toccante, è per intima esperienza infatti, è sentendo che si può comprendere nel modo più partecipe e efficace, il sentire porta dentro il vero. Il problema è imparare a comunicare con la propria interiorità, avere occasione, formando e sviluppando capacità autenticamente riflessiva (non di parlar sopra, di rimuginare, di sovrapporre commenti e spiegazioni a ciò che si prova, ma di vedere, riflessivamente, come in uno specchio ciò il proprio sentire rivela) di raccogliere e di fare proprio ciò che i propri intimi vissuti consentono di avvicinare e di comprendere, scoprendo che ci si può davvero fidare e lasciar guidare dal proprio sentire, che nei propri percorsi interiori, pur insoliti e difficili, si sta disegnando un cammino, che non porta alla deriva, ma vicino a se stessi, al vero, a capirsi come mai è accaduto. Trarre frutto di conoscenza, di consapevolezza (più pienamente attingendo ai sogni e alla loro straordinaria intelligenza) da tutto ciò che si vive interiormente, anche se molto disagevole e sofferto, è la scoperta capace, come accade in una buona esperienza analitica, di rovesciare la paura e la diffidenza in fiducia, la fuga da ciò che si ha dentro e il suo ripudio in volontà di vicinanza e di dialogo con la propria interiorità, senza barriere. Ripeto, è necessario acquisire capacità di rapporto, capacità di orientamento in un mondo, in un'esperienza, quelli interiori, con cui non si ha confidenza, dentro cui negli anni, più o meno tanti, non si è affatto imparato a muoversi. Si avanza negli anni infatti imparando a intendersi più con l'esterno che con l'interno. Ma non è mai troppo tardi per dotarsi della capacità, non certo superflua o secondaria, di ascoltarsi, di leggere l'intima esperienza, di orientarsi nel proprio sentire, di comprendere il linguaggio interiore. Serve un aiuto per questo, perchè i modi abituali di pensare, di cui si dispone, nulla hanno di autenticamente riflessivo, di adatto a entrare in rapporto con l'esperienza interiore, col sentire, con i sogni. Ci sono però ostacoli non di poco conto sulla strada, che spesso bloccano in partenza l’ipotesi e il proposito di intraprendere un serio e approfondito  lavoro su se stessi, un percorso, che permetta di aprirsi alla propria interiorità, di conoscere, senza pregiudizi, questa parte di sè in ciò che sa dire e dare. Quali gli ostacoli e le barriere? In chi vive  un'esperienza di crisi e di malessere interiore si fa largo spesso una reazione vittimistica, che rivendica la pronta liberazione dalla sofferenza interiore, squalificata come carico indebito, come malasorte, come malattia. C'è poi una nutrita schiera di terapeuti, che, con vario titolo, sono pronti a suffragare l’idea che il malessere interiore sia soltanto un'afflizione di cui liberarsi, da combattere, uno stato anomalo da sanare e correggere e ciò non giova certo a rapportarsi fiduciosamente all’esperienza interiore dolorosa e critica, a riconoscerla come parte viva di sé da rispettare e da valorizzare, con cui cercare un incontro e non uno scontro, con cui imparare a dialogare. Ciò non giova a comprendere che il malessere interiore vuole e può essere non una pericolosa deriva, ma la porta di ingresso e la leva di una trasformazione non solo utile, ma indispensabile per trovare visione chiara dentro se stessi, per mettere, non illusoriamente, ma saldamente nelle proprie mani la propria vita. Viceversa l'adesione a un modo di intendere e di interpretare la propria vita a senso unico e all’insegna dell’integrazione e dell’adattamento alla cosiddetta realtà, intesa come modi organizzati e comuni di pensare, agire, trovare soluzioni, organizzare e dirigere l’esistenza, fa sì che si ritenga di essere già a posto e avanti, un pò per orgoglio e un pò tanto per paura di svelare un ritardo, un’inefficienza rispetto alla cosiddetta  “normalità”.  Il proprio disagio interiore, che fa intendere che ciò di cui si dispone è fragile, sconnesso, credibile fuori, ma discordante col dentro, è prontamente temuto e osteggiato come minaccia di perdere contatto con la schiera dei normali o presunti tali. Anche se tra ciò che si pensa e ciò che si sente non c’è corrispondenza, anche se l’insieme di ciò che si sa vedere e concepire, capire di sé e della propria vita è, ad essere onesti e sinceri, perlomeno raffazzonato e confuso, senza vera consistenza e forza, poco importa, ciò che si vuole è senza discussione tornare a procedere come prima, come sempre. In fondo basta fondersi e confondersi con la successione degli eventi, distrarsi da sé e dal proprio sentire, basta appoggiarsi alla illusione che quattro schemi razionali bastino a credere di sapere di sé e del vivere, basta dare credito a qualche segno materiale di possesso e di presunta auto realizzazione, per tentare di allontanare da sé ogni dubbio sulla validità del proprio procedere abituale, per tentare di svuotare di senso ogni malessere. Ma l'interiorità non ci sta a farsi mettere in un angolo, a farsi zittire o fraintendere, torna implacabile col malessere che non recede a ricordare che non c’è connessione e unità con se stessi, che non c’è nulla che abbia davvero capacità di persuasione intima e profonda in ciò che si sta facendo di se stessi, in cui si sta persistendo. La scelta di combattere l'intimo sentire, di sminuirlo a espressione storta e malata, la scelta di buttarlo, di sostituirlo fin dove possibile con altro, di cercare, come fosse il meglio, la distrazione da sé e dal proprio malessere cocciuto, è favorita dal perenne rifarsi allo sguardo altrui, all'idea comune. Nessuno, o quasi, in fondo incoraggia a sostare per riflettere, per ascoltarsi, per veder chiaro, per cercare il vero, per trovare proprie risposte, aderenti a se stessi, perché nessuno o quasi lo sa fare, perché agli occhi della maggioranza fermarsi, avvicinarsi al proprio intimo sentire, significa rischiare di perdere contatti ritenuti vitali con l'esterno, di perdere terreno, di smarrirsi. Per provare a allontanare il malessere, che rischia di corrodere le persuasioni deboli e confuse, cosa c'è di meglio allora che tornare a cercare lo sguardo altrui, per cercare conferma, conforto che tutto va bene, casomai il dono di qualche consolazione o l'ebbrezza di sentirsi importanti per qualcuno e ben considerati? Tanti ostacoli dunque sulla strada della scelta di prendersi sul serio, di prendere sul serio la voce intima, il malessere che insiste, che non fa sconti, che vuole ricordare che non bastano le apparenze e le conferme esterne per trovare se stessi, per dare volto e contenuto proprio e autentico alla propria vita. La sofferenza interiore è fermo richiamo, è onesto e sincero bilancio, è forte invito a non persistere nella fuga da sé, nella ignoranza e lontananza dalla propria interiorità, senza la quale non c'è possibilità di conoscersi, di concepire e di generare il proprio, di farlo vivere, ma non è detto che sia ascoltata.

venerdì 24 agosto 2018

Riprendere in mano la propria vita

Quante volte capita di sentir dire queste parole da chi, coinvolto da disagio interiore, auspica di spazzarlo via per avere possibilità appunto di riprendere in mano la propria vita! In realtà a cose immutate la presa o ripresa si rivelerebbe velleitaria, perché la forma di vita che si vorrebbe ripristinare è proprio quella fasulla cui la propria interiorità non dà credito, che col malessere vuole smitizzare, di cui vuole svelare vuoti e inconsistenze, di cui vuole si prenda chiara visione dei modi e di ciò che la disciplina e sostiene, senza equivoci, senza ingenuità. Non c'è possibilità di prendere davvero in mano la propria vita se non si va incontro a cambiamenti di qualità e di sostanza, se non si asseconda l'intento del proprio inconscio, che col malessere ha avviato la crisi, di promuovere una trasformazione profonda, che segni il passaggio da una vita che s'appoggia a altro a una vita propria fondata su di sé e su autonoma capacità di pensarla e di governarla. Non si è liberi se si è nella sostanza dipendenti. L'interiorità, la parte di sé profonda, che non va dietro alle illusioni, che sa vedere il vero, che spinge per la rinascita come soggetti autonomi davvero, dotati di pensiero non imitativo, ma riflessivo e originale, completi di ciò che, abitualmente cercato come surrogato fuori in altro o nel legame con altri, può essere invece cercato, conquistato e fatto vivere dentro se stessi, questo col malessere vuole rendere questione cruciale e imprescindibile. Per prendere in mano la propria vita è necessario non simulare autonomia, ma averla, avere capacità ben fondata e piantata di vedere con i propri occhi, di concepire e di generare pensiero in stretta unità e fedeltà a se stessi, poggiando sul proprio sentire, avere capacità di legittimare e di dare fiducia alle proprie scelte, senza cercare sostegno fondamentale e conferma in altro e in altri. Non c'è da prendere scorciatoie, c'è da fare sul serio per prendere davvero in mano la propria vita.

Docile non è...

La propria interiorità non sta affatto nei confini della cosiddetta normalità, dentro quel campo delimitato, dove tutto dovrebbe svolgersi secondo previsione e programma, senza scosse e senza sorprese sgradite, non dando disturbo, non recando fastidio. Docile a simili aspettative e pretese non è il proprio profondo, perché ama la vita, perché non accetta i pastrocchi e le illusioni che l'altra parte, quella conscia, che, si crede superiore in affidabilità e capacità di giudizio, confeziona. La parte conscia, in presenza di crisi e di malessere interiore, che vorrebbero riaprire i giochi, condurre a un serio riesame della propria vita, del proprio modo di condurla, reagisce e si allarma, spesso, senza tanti indugi, strepita e sentenzia, giudica e dispone, senza capire e intendere se non i propri pregiudizi, non si fa scrupolo di aggredire la parte intima, di mortificarla, dandole della balorda, della sciagurata, dell'incapace e della malata. La conferma autorevole non tarda a venire. Etichette diagnostiche, che fanno di ogni erba un fascio, per definire, meglio sarebbe dire per marchiare (e da lì avviare a trattamento normalizzante farmacologico e non), con pretesa aria di sapere indiscusso e di scientificità, esperienze interiori, tanto impegnative e disagevoli quanto uniche e cariche di senso, con cui non si ha né volontà, né capacità di entrare in rapporto, cui ancor meno si è disposti a riconoscere intelligenza e capacità propositiva, sono il suggello di un atto ostile, anche se non riconosciuto come tale. Un atto ostile contro parte di sè e a proprio danno, pur con l'aria di procurarsi benevola cura, di darsi aiuto. L'interiorità non si piega, non si fa addomesticare, insiste, ogni suo rinvenire forte e risoluto incontra risposta dura e ancora ostile, la squalifica prosegue e la parte conscia parla di ricaduta di malattia. Beata ingenuità di una parte di sé, tanto arrogante e spiccia nei giudizi, quanto ignorante! Ho dedicato la mia vita a rivalutare e a valorizzare, a difendere e a rendere giustizia e dignità alla parte bistrattata, la più saggia in realtà, la più capace, insostituibile nel ridare a ognuno dignità, forza e spessore di individuo pensante e consapevole e non di pecora vagante senza meta propria e senza progetto, in forte e stretta sintonia col gregge piuttosto che con se stesso. L'interiorità è valida, irremovibile nel suo intento di testimone del vero, di promotrice di crescita, di realizzazione umana autentica e non d'immagine e fasulla, l'inconscio è una risorsa straordinaria e ai più sconosciuta nella sua vera natura e potenzialità di fonte di vita e di pensiero. Ho cercato e cerco di aiutare l'altro a non ripudiare parte di sé preziosa e affatto nociva, a non spararle contro per liquidarla senza entrarci in rapporto e senza conoscerla, continuerò a aiutare l'altro a non fuggire sciaguratamente da se stesso.

martedì 21 agosto 2018

La propria strada

Quanto c'è nel malessere interiore che abbia a che fare con la conquista della capacità di aprire e di seguire fedelmente la propria strada? Tantissimo. Capita che, sia nel modo di leggere il significato della propria esperienza, che di intendere le ragioni e gli scopi della propria vita, ci si faccia portare e dirigere, spesso inconsapevolmente, da idee preconcette e da modelli comuni, che si incardini il proprio pensiero su schemi soliti e lo si muova dentro percorsi già segnati. Nulla però nella comprensione del senso di ciò che si sperimenta, così come nella scoperta dei percorsi da seguire e delle mete della propria vita, può essere dato per scontato e consegnato a visione e a regole generali e prefissate. Per fare salva la scoperta delle proprie vere potenzialità e ragioni d'esistenza, la comprensione e il perseguimento dei propri originali scopi è importante non andare a rimorchio di nulla, è essenziale conoscersi profondamente e trovare risposte dentro se stessi e consone a se stessi. Non si è soli, dentro di sè, nel proprio intimo e profondo il più valido e affidabile interlocutore, il miglior aiuto per capirsi, per capire. La vicenda interna, tutto ciò che accade e che si muove nell'esperienza interiore, è lo stimolo e la guida valida e sicura che può far recuperare a ognuno la capacità di entrare in sintonia con se stesso, di capirsi, di orientarsi. Può essere comodo e capita assai di frequente che farsi portare da idee e da esempi comuni, da modelli prevalenti sostituisca il carico della propria ricerca. Nel rapporto con la propria esperienza, se si vuole sviluppare pensiero autonomo, è fondamentale imparare a fare saldo riferimento al proprio sentire, che dell'esperienza sa rivelare le implicazioni e il volto più integro e vero. E' importante e decisivo trarre da lì risposte sincere e fondate, evitando di affidarsi a risposte confezionate col solo ragionamento, che, spesso tese a tutelare la propria immagine e la continuità dello stato presente, a darsi conferme e a porsi al riparo da rischi di instabilità e di perdita di consenso, aumentano la distanza da se stessi e dal vero. Darsi risposte non coerenti con se stessi, che non rispecchiano e che non sono in sintonia col proprio sentire, che offrono agio e rassicurazione, a volte o spesso omettendo chiarimenti stringenti e parti scomode e passando oltre, equivale a chiudere al confronto con se stessi, a privarsi della possibilità di capire, di conoscersi, di sviluppare conoscenza. Farsi persuadere e dirigere da altro nelle proprie scelte significa divergere da se stessi, non comprendere nell'intimo di sé le ragioni e il volto di ciò che ha valore per se stessi, che si ama e che si desidera far vivere, non trovare la forza e la passione di seguire la propria strada, optando viceversa per ciò che per senso comune pare più valido e conveniente. Se la modalità passiva di farsi condurre e sostenere nei propri ragionamenti e nelle proprie scelte da attribuzioni di significato e da idee preconcette, da giudizi di valore e di opportunità precostituiti, che anticipano e che sostituiscono le scoperte che sarebbe possibile fare ponendo a guida del pensiero e al centro del proprio sguardo il proprio sentire, è facilmente camuffata e equivocata come modalità attiva di pensiero e capacità decisionale, se i tentativi di accomodarsi con le abilità e con le astuzie del ragionamento il significato della propria esperienza e delle proprie scelte, sono spesso accreditati come affidabili e sinceri modi di capire se stessi, non sono di certo né equivocati né presi per buoni dalla parte di sé profonda, che non ignora, che non chiude gli occhi sul senso vero di tutto ciò che ci accade. La modalità passiva di procedere, di svolgere pensiero, che chiude gli spazi di ricerca propria e approfondita, che scambia il ragionato per il vero, profondamente non passa inosservata, non è sottovalutata nelle sue serie implicazioni, non è pacificamente accettata. Non per caso interviene con decisione la risposta interiore nella forma del malessere, che vuole segnalare il problema e evidenziare i punti critici del proprio modo di condursi, di stare in rapporto non aperto e non dialogico con la propria interiorità, spesso lontani e scissi dal proprio intimo sentire, senza possibilità e capacità dunque di esplorare e di riconoscere con i propri occhi il vero senza ipocrisie, senza veli e compromessi, senza forzature e distorsioni. E' questo un punto centrale, messo in risalto spesso da vissuti di ansia, che interiormente non danno tregua e che battono forte, non casualmente e non certo insensatamente, perchè, senza salda unità e corrispondenza col proprio intimo, senza il supporto e la guida della propria interiorità, si è, a dispetto di ciò che si vorrebbe farsi credere, deboli e sguarniti, in perenne stato di precarietà e di smarrimento, più confusi da ragionamenti che messi nelle tracce del vero, a rischio perciò di muoversi senza bussola e senza capire nulla. Senza capacità di  ascolto e di valorizzazione piena e fedele del proprio sentire, che accompagna interiormente tutta quanta la propria esperienza, si è privi infatti della  possibilità di vedere, di aprire il proprio sguardo, di accedere alla comprensione del senso, del vero, di fondare su questa la propria crescita e forza, la propria capacità di autogoverno, di concepire e di sostenere scelte davvero corrispondenti a se stessi e non ispirate e trainate da preferenze comuni e da modelli predominanti. Privi di guida interiore è fatale infatti che ci si rivolga e affidi, che si cerchi accordo con guide esterne, seguendone le indicazioni, obbedendo e disciplinandosi alle loro regole e postulati, facendo proprie le soluzioni che il modo di concepire comune e di condursi offrono. Senza ricerca aperta e propria, senza riflessione guidata dal proprio sentire, è fatale che ci si affidi a idee e a propositi illusoriamente propri e capaci di tradurre le proprie necessità e aspirazioni, ma in realtà imitativi d'altro, tenuti su e fatti valere più da senso comune e da autorità esterna che da personale intima profonda conoscenza e persuasione. Questo accade anche quando, sposando idee di cambiamento, collocandosi sul terreno della critica dell'esistente, dell'anticonformismo, delle posizioni e opzioni alternative, ci si illude di aver cambiato tutto, di essersi affrancati e di aver rotto i vincoli di dipendenza e di adesione al comune e prevalente. La parte profonda di sè non coltiva e non conferma l'illusorio, dà segnali di crisi, rompe gli equilibri, per spingere, senza indulgere alle scorciatoie e senza fare sconti, a verifiche attente, evitando di vedersi estranei a ciò che, contestato e messo sotto accusa, invece dentro sé è ben presente e tutto da capire, spingendo a vedere anche nel presunto nuovo quanto c'è ancora di dipendente da altro, da suggerimenti e da conferme esterne. L'inconscio vuole promuovere cambiamenti veri e frutto di presa di coscienza lucida e senza trucchi, senza omissioni di comodo, senza pretesi cambiamenti e progressi privi di sostanza e di fondamento. L'interlocutore interno, il proprio profondo è ben più attento e vigile, ben più capace di garantire stimoli di crescita vera di qualsiasi interlocutore esterno. Accade che, coinvolto da malessere interiore, l'individuo spesso si irrigidisca nell'autodifesa, che sia più incline a volersi ricondurre nell'alveo solito e conosciuto, a darsi conferme della propria sostanziale sufficienza, che a fermarsi a riflettere e a ripensarsi, che anzi spesso rivendichi con forza di eliminare il malessere, per tornare alla condizione precedente, come se quella fosse l'unica via di salvezza e promettente, l'unica modalità possibile e credibile, come se tutto della propria dotazione e modo di procedere  fosse a posto e il malessere fosse solo un incomodo, un freno, un intralcio maledetto. Chi ancora non ha cercato dentro sè le risposte, accogliendo le proposte e le guide del proprio profondo, non riesce a considerare possibile se non il già conosciuto. E’ inevitabile che, per conquistare autonomia e capacità di farsi fedele interprete di se stesso, ognuno debba compiere, con l'aiuto adatto, un lavoro su se stesso di trasformazione profonda, che segni prima di tutto un cambiamento di rotta, mettendo in primo piano e coltivando lo scambio e il dialogo con se stesso, con la propria interiorità. La propria interiorità offre l'occasione di prendere visione della propria dipendenza da altro, che, sostitutivo della propria conquista di visione e di consapevolezza, istruisce e guida, che offre risposte pronte e percorsi già segnati. Avvicinata e rivisitata dentro una riflessione attenta (spesso sono i sogni a guidare la ricerca proprio in questa direzione), l'abituale modalità di pensiero, illusoriamente intesa come capacità di pensiero proprio e indipendente, si rivela in realtà fatta di presa in prestito e di ricalco di idee e di attribuzioni di significato e di valore per nulla originate da esperienza, da ricerca e da comprensione proprie. Solo l'avvio deciso di un percorso riflessivo e di creazione di idee proprie, di scoperta di significati, alimentata dal dialogo con la propria interiorità, nutrendosi di ciò che il profondo sa dare, può rompere gli abituali vincoli di dipendenza da pensiero comune e da modelli prevalenti, la tendenza, anche dentro elaborazioni razionali che paiono ingegnose, alla riproduzione automatica di idee e di attribuzioni di significato convenzionali. Le vicende interiori, ciò che vive nell’intimo di ognuno sono il luogo della ricerca, sono il terreno fertile e prezioso, insostituibile della presa di coscienza e dell'avvicinamento a se stessi. Se corrisposta  da disponibilità a concedersi al sentire, anche se arduo e doloroso, da capacità di ascoltarlo, di intenderne voce e proposta, l’interiorità di ognuno sa dare le giuste guide per fare chiarezza, per uscire da modi impropri di pensare e di concepire la propria vita e il proprio essere, per entrare nel vivo della conoscenza, per liberare la propria progettualità, per comprenderne le ragioni e per investire sulle proprie scelte. Il sentire in tutte le sue declinazioni (non filtrato, senza discrimine e contrapposizione tra sentire buono e cattivo, bello e spiacevole, normale e anomalo) e i sogni sono la via maestra per capirsi e per capire, per trovare il proprio originale sguardo sulla propria vita, per comprendere, in modo vivo e fondato, non razionale e astratto, le sue ragioni profonde e vere, ciò che a partire dal profondo del proprio essere vuole vivere e fedelmente a se stessi. I maestri di vita esterni, ce ne sono a bizzeffe e di ogni tipo, le loro lezioni non hanno nulla a che fare con ciò che la propria interiorità sa dire e far comprendere. Maestro vero e affidabile di vita e di pensiero, consono e fedele a se stessi, è soltanto il proprio profondo. Va scoperta la sua grande affidabilità e capacità. L'analisi, quella ben fatta, è proprio questo che sa svelare e dare. La posta in gioco: aprire e seguire fedelmente la propria strada.

martedì 31 luglio 2018

L'importanza di non travisare

L'interiorità si fa in quattro per coinvolgere la parte cosiddetta conscia, che spesso di consapevolezza vera ne cerca e ne forma assai poca, per farle capire che c'è necessità vitale di prendere visione attenta di come si è e di provvedere a costruire, a formare quanto manca per essere all'altezza di individuo con propria identità e progetto. L'interiorità non vuole chiudere gli occhi e preme facendo capire che non c'è urgenza di fare e di proseguire come sempre, senza perdere colpi, che l'urgenza è ben altra. Ostinatamente lancia l'allarme, il profondo dell'essere strattona anche con forza la parte di sopra, ponendo intralci alla sua pretesa di quieto vivere, alla sua propensione a gettarsi fuori, come se il fuori fosse l'unica risorsa e riferimento, l'unico habitat possibile, rifuggendo il luogo intimo, dello stare in contatto con se stesso, col proprio sentire, come fosse irrilevante e senza promessa, un niente da evitare, dentro cui non sostare, perchè ci sarebbe sempre bisogno d'altro per vivere e, per dirla giusta, per non perdere il passo con qualcosa che non si sa bene perchè, ma che tutti dicono essere normale. L'interiorità non recede e insiste nella volontà di porre al centro dell'attenzione non le illusioni, non la voglia matta, questa sì matta, di proseguire e basta, ma non c'è verso, le capita solo di essere oggetto di improperi (del tipo di: maledetta ansia!), di giudizi senza ascolto, di sentenze senza appello, casomai sotto forma di diagnosi, di prese di misura curativa che altro non sono che purghe per spazzare via ciò che è inteso solo come disturbo e patologia. Il quadro è questo, ma i travestimenti in forma di cura di risposte sorde e ostili all’interiorità e i travisamenti sono infiniti e ferrei. Ne sono esempi, ben sostenuti dall'ideologia dello star bene purchessia, casomai nel segno del non aver di mezzo dubbi e domande, la cura che vuole mettere a posto e a tacere l’interiorità con i farmaci, quella che vuole risanare e correggere con tecniche per eliminare ciò che considera anomalo e disfunzionale. E poi ancora la cura che, con pretesa di essere introspettiva e analitica, vuole spiegare i presunti perchè di ciò che, interiormente impegnativo e difficile, non sa ascoltare in ciò che vuole dire e far capire, cui soltanto va a cercare con lunghi giri le presunte cause per levarselo di torno, per liberarsi dell’incomodo di qualcosa, che in partenza terapeuta e paziente giudicano l'esito infelice di un danno patito, di un passato sfavorevole, una sofferenza residua frutto di condizionamenti negativi, di traumi subiti, travisando, travisando. Con ostinata sicumera si travisa come disturbo da togliere e guasto da sanare ciò che l'interiorità vuole, a ragion veduta, dire e dare, la consegna, che certamente impegnativa, ma a misura e a altezza di essere umano, vuole portare a cambiare profondamente, a diventare soggetti consapevoli e artefici della propria vita e non passivi traduttori di un'idea di vita già scritta, con parte da interpretare e sceneggiatura belle che pronte. Il profondo ha capacità di vedere vuoti e assenze, vuoti di sè, di pensiero proprio, di capacità di leggere nell'intimo e senza veli il proprio modo di essere e di procedere. Se ancora non si sono trovate le proprie risposte alla propria vita e se ancora non si hanno radici in se stessi, come si può pretendere di proseguire integri e imperterriti, come se tutto fosse scontato e già risolto? Se una parte di se stessi vede e non ignora il problema è assurdo e patologico o è comprensibile e sano che si faccia in quattro per sollevarlo, strafottendosene della preoccupazione che domina l'altra parte di sè di proseguire comunque e basta, di non perdere il passo con gli altri? E' importante non travisare.

sabato 21 luglio 2018

Il valore dei sogni

Torno a parlare dei sogni, perchè meritano considerazione speciale. I sogni sono la punta di diamante della straordinaria capacità di pensiero del profondo. Se letti e intesi in chiave concreta i sogni sono stravolti e sviliti nel loro vero significato e valore. I sogni descrivono con linguaggio simbolico la situazione interiore del sognatore, svelano, aprono domande, indicano questioni cruciali riguardanti il suo modo di essere e di rapportarsi a se stesso, alla sua componente interiore e profonda. Tutte le figure e gli elementi che compaiono nel sogno parlano dell'autore del sogno, figure umane, animali, cose, luoghi, tutto parla di lui e dà volto e mette allo specchio, senza veli, gli aspetti caratterizzanti della sua personalità, anche quelli sgraditi e volentieri scaricati su altri. L’inconscio è la parte di noi stessi che non si lascia illudere dalle apparenze, che ha a cuore il vero. Il sogno è il prodotto della elaborazione attenta e approfondita che l'inconscio sa fare della nostra esperienza e dello stato in cui siamo, del nostro modo di procedere, del nostro grado di vicinanza, più spesso sarebbe il caso di dire di lontananza, da noi stessi, del nostro modo di trattare la nostra interiorità e le sue proposte. Bisogna badare a non mettere sopra al sogno spiegazioni costruite col ragionamento, a non fare deduzioni. Confezionare col ragionamento interpretazioni apparentemente coerenti e quadrate sul sogno, senza imparare a avvicinare e a far dire ai suoi simboli, rispettando e valorizzando fedelmente tutto il suo contenuto, significa solo chiudersi e rigirarsi  nei propri abituali schemi e procedimenti mentali e non comunicare per nulla col sogno, non raccoglierne il prezioso seme e contributo di conoscenza. I simboli presenti nel sogno, va ricordato per inciso che tutto del sogno fin nei più minuti particolari è simbolico, non sono di significato prevedibile e scontato, ogni espressione simbolica è unica e originale, i traduttori di simboli, del tipo questo significa questo già prestampato, sono autentiche sciocchezze. I sogni hanno una loro forte organicità, nulla è fuori posto o superfluo all'interno del sogno, nulla è gratuito o messo per caso o per generare solo meraviglia, nulla va a far parte del sogno, come spesso a sproposito si pensa, come rimasuglio di esperienze diurne riproposte in modo caotico e frammentario, casuale. Tutto l'insieme del sogno, composto in modo attentissimo e mirato dall'inconscio, concorre a dare svolgimento e espressione a un pensiero tanto lucido e fuori da ciò che è stato sinora pensato dal sognatore, quanto aderente e calzante con la sua esperienza, con ciò che gli appartiene. Il pensiero del sogno non è mai la conferma di qualcosa di già conosciuto e acquisito dal sognatore, l'inconscio non interverrebbe per rigirare la stessa frittata. Se il sogno interviene significa che è tempo e che ci sono le condizioni per fare proprio quel messaggio, quel contributo, anche se non è di immediata presa, anche se richiede un approccio adeguato per non farne cattivo uso e improprio. L'approccio al sogno dev'essere rispettoso del valore e del tasso di intelligenza in esso racchiuso, che sono il fondamento della sua capacità di dare un contributo sostanziale e prezioso alla conoscenza di se stessi. Chi spiega il significato di un sogno dopo una rapida occhiata, senza lavorarci con cura e con pazienza, senza far parlare il sogno, senza passare attraverso tutti i rimandi in esso racchiusi a esperienze, a vissuti, avendo cura di utilizzare e di valorizzare tutti i dettagli presenti, è destinato a mettere assieme solo un suo teorema, tutto interno e coerente con il suo orizzonte mentale solito e conosciuto, che nulla ha a che fare con l'intento e col messaggio del sogno. Qualcosa di analogo accade quando si trattano i vissuti, le esperienze interiori, il proprio sentire, sui quali ci si precipita spesso a trovare spiegazioni, a dare giudizi di valore (distinzioni e contrapposizione di sentire positivo e negativo, giudizi di sentire anomalo o ingiustificato sul conto di paure, ansia, inquietudini ecc.), piuttosto che ascoltarli, che far dire loro cosa racchiudono e vogliono comunicare. Capita frequentissimamente che i sogni siano travisati e fatti oggetto di interpretazioni, di spiegazioni che rispecchiano solo idee incallite e modi di pensare precostituiti. Nulla è più intelligente e capace di fecondare e di rinnovare il pensiero dei sogni, di forgiarlo non su basi astratte, ma in stretta aderenza all'esperienza. I sogni racchiudono e promuovono pensiero riflessivo, pensiero capace di farci vedere come allo specchio ciò che siamo, cosa sta accadendo dentro di noi, richiamandoci continuamente al fatto che non siamo fatti solo di superficie razionale e volitiva, ma anche di sentire, di svolgimenti interni tutt'altro che banali e insignificanti. I sogni ci mostrano i nostri modi di procedere, cosa ci muove davvero nelle nostre scelte, nel nostro agire, le implicazioni su di noi, sul presente e sul futuro personale, facendo emergere i nodi importanti da sciogliere, per non andare avanti incautamente e a occhi chiusi. E' un pensiero quello mosso e proposto dai sogni che è capace di condurre, rompendo pregiudizi, spiegazioni improprie, tesi illusorie e di comodo, a nuove scoperte di verità e approfondite su se stessi, impegnative, ma capaci di far crescere, di cambiare profondamente se stessi. Nell'esperienza analitica, me ne occupo da tanti anni, i sogni hanno un ruolo cardine, il percorso di avvicinamento a se stessi e di conoscenza di se stessi è guidato e nutrito dai sogni, creature di straordinaria intelligenza e affidabilità. Per intendere ciò che un sogno vuole e sa condurre a vedere serve tempo e lavoro attento e paziente, è un cammino, quello che si fa facendosi prendere per mano dal sogno, che ha in sè un alto potenziale di rinnovamento. Chi lo segue vede via via mutare il suo punto di vista e aprirsi uno scenario inedito, il più vicino al vero, il più corrispondente al proprio intimo sentire, così lontano dallo sguardo e dalla capacità di osservazione del pensare razionale cui era abituato. I sogni sono un contributo di eccellente valore e insostituibile per la conoscenza di se stessi, per arrivare a comprendere ragioni e scopo di ciò che si vive interiormente, di tutto il difficile e sofferto della propria esperienza interiore, di tutto ciò che va a finire ahimè spesso nella gabbia delle definizioni di disturbo e di malattia. L'inconscio che genera i sogni è la stessa mente e mano che regola e governa l'esperienza interiore, tutto il sentire e gli svolgimenti interiori, anche quelli più insoliti e sofferti, mai conseguenza banale e automatica di cause esterne o espressione di anomalo funzionamento, ma supporto e veicolo vivo e sentito, proposto intelligentemente dal profondo, per entrare nel vivo della consapevolezza di se stessi e di questioni da capire e da porre al centro dell'attenzione, a condizione che si impari a ascoltarli e non a rifuggirli o a squalificarli come disturbo e presenza nociva. L'inconscio è la parte profonda di noi stessi che vuole sollevare la questione del vedere dentro ciò che facciamo e siamo, che non si arrende all'idea che proseguire imperterriti e rincorrere la normalità sia la scelta ovvia e positiva, l'unica possibile. L'inconscio è dalla parte del nostro aprire gli occhi, del vedere le cose e del concepirle a modo nostro, con piena aderenza al vero della nostra esperienza, senza travisamenti, del fare della nostra vita qualcosa di coerente con noi stessi. I sogni sono capolavori di intelligenza, di spirito critico, di voglia di crescere e di far crescere la nostra autonomia, di sviluppare il nostro pensiero non ammaestrato da altro e da idee comuni, non passivo dietro a schemi e a idee in uso, non oscurato e ingarbugliato da teorie di comodo e da ipocrisie, ma trasparente e vivo, coraggioso e originale, fondato su esperienza personale e su scoperta dei suoi intimi significati, pensiero capace di darci le guide per fare della vita la "nostra" vita.

domenica 1 luglio 2018

La cura

Per chi vive uno stato di sofferenza interiore si pone il problema del che fare, di come prendersi cura di se stesso. Pare evidente e scontato che far cessare quanto prima il disagio, che togliersi o farsi togliere quel carico interno difficile e sofferto sia la soluzione più desiderabile e propizia. Pare, ma una riflessione attenta merita di essere fatta. Tutta l'esperienza interiore, emozioni, stati d'animo, pulsioni, complessi svolgimenti interiori, non è mai casuale o automatica e semplicemente condizionata da stimoli esterni, bensì è mossa e regolata da parte profonda, dall'inconscio, con lo scopo di rendere comprensibile di volta in volta qualcosa di utile e necessario. L'intento dell'inconscio è di segnalare, attraverso il sentire e i movimenti della vicenda interiore, il vero, complicando e correggendo la visione conscia  razionale, spesso miope e distorta da preconcetti e da interessi immediati di auto rassicurazione e conferma, oltre che pigra e inerte nel cogliere i significati più profondi e le implicazioni della propria esperienza. I sogni sono poi il modo in cui il profondo dà il meglio e il massimo di sè e della sua capacità di indirizzare la presa di coscienza, la conoscenza di se stessi. Fatta questa premessa, necessaria per chiarire con cosa ci si rapporta quando si avvicina l'esperienza interiore, in qualsiasi forma essa si dia e si manifesti, anche nelle forme del malessere interiore, si può cominciare a riflettere su cosa implichi davvero per l'individuo trattare in un modo o nell'altro ciò che vive dentro se stesso, se come un meccanismo da regolare a piacimento, da contrastare e correggere quando ritenuto anomalo e mal funzionante, se invece come un'intelligenza profonda, componente preziosa di sè, del proprio essere, da rispettare, valorizzare e comprendere per farne propri i contributi. Se una parte di sè, quella profonda, che usa come voce e linguaggio il sentire, avanza una proposta, smuove, cerca proprio attraverso il malessere di calare nel vivo della consapevolezza di qualcosa di decisivo e di importante (se così non fosse non farebbe tanto rumore), la risposta più utile e saggia, più attenta a sé, ai propri interessi sarebbe in realtà di intendersi con questa parte intima di se stessi, di collaborare nella presa di visione del problema, che la propria interiorità sta cercando di far capire, di rendere priorità assoluta. Capisco che non è facile entrare in questa prospettiva, quando, come dicevo all'inizio, imperante è l’idea, ritenuta ovvia, che, se si sta soffrendo, la cosa migliore da farsi a proprio vantaggio sia di spegnere al più presto, di dissolvere e scacciare ciò che, perché disagevole e sofferto, si ritiene faccia solo danno. Se poi questo modo di intendere la  sofferenza interiore e la cura, con la proposta pronta di soluzioni farmacologiche e non, è sostenuto da una non piccola schiera di esperti e di terapeuti vari, questo pare dare solida e "scientifica" conferma a una tendenza già ben presente nella mentalità comune. Pare consono e favorevole a se stessi, ma questo modo di pensare la propria condizione e il prendersi cura di se stessi,  di definire ciò che andrebbe a proprio vantaggio è un gran tranello in realtà. Se una parte di sé, intima e profonda, non un che di alieno, lancia l’allarme, fa il diavolo a quattro per far intendere che c’è un problema decisivo, per smuovere e già indicare nella crisi l’insostenibilità degli attuali equilibri, la necessità di costruire dentro se stessi qualcosa di nuovo, che ancora non c’è, se dà attraverso il sentire le prime tracce per iniziare a vedere e a capire, se a ciò si risponde facendo guerra al richiamo e mettendo in campo ogni sforzo possibile per levarsi di torno in fretta la difficile esperienza interiore, senza raccoglierne il messaggio e la proposta, il danno, questo sì reale, a cui ci si espone è duplice. Da un lato ci si condanna a rimanere ciechi e ciò che la parte profonda di sé in modo lucido e previdente ha visto necessario capire, cambiare e ricostruire di sé, lo si butta tra i rifiuti, dall’altro si alimenta, si consolida e rende inossidabile uno stato di diffidenza, di paura, di disunione con se stessi. Sono le storie tristissime e interminabili di paura di star male, che ricapiti, stando sul chi va là perennemente contro parte intima di sé, temuta, sempre più temuta e sempre più incompresa. Va aggiunto che per capire e per assecondare il proposito di trasformazione che viene dal profondo e di cui il primo atto necessario è la crisi, l’interruzione del corso solito, la presa forte del sentire, che di fatto impone di dare assoluta precedenza alle vicende interiori, maggior peso al dentro, all’intimo di sé, rispetto al fuori, va fatto un lavoro adeguato, con l'aiuto di chi sappia impostarlo e guidarlo. Non può esserci crescita e trasformazione senza coltivarle, senza rendersene parte attiva e consapevole. La ricerca di soluzioni veloci si regge spesso sulla comodità di rendersi solo oggetto passivo di cura con qualche pillola buttata giù, eventualmente con l'applicazione di qualche consiglio e prescrizione di comportamento, sull'indisponibilità a un lavoro più impegnativo con l'argomentazione che non è accettabile l'idea di un impegno di tempo più consistente per perseguire un risultato utile. Accade poi in realtà che il tempo passi comunque e che a distanza di anni ci si ritrovi al palo, che tutto rimanga uguale, anzi peggiori, vista la convivenza armata con se stessi, che limita e deteriora sempre più la propria esistenza. La scelta di aprire dialogo e confronto con il proprio intimo e profondo, di essere aiutati a farlo, è certamente più impegnativa che buttar giù pillole o farsi dare velocemente qualche spiegazione e dritta, ma va considerato quanto può valere. La scelta che paga davvero non è infatti di ingaggiare la guerra, sotto forma di cura, contro il proprio intimo sentire, ma di imparare ad ascoltarlo e a comprenderne il linguaggio e la proposta, di lavorare su di sé in accordo e sotto guida di questa parte di sé profonda per raggiungere qualcosa di importante e di irrinunciabile per sè, per trovare finalmente accordo e unità di visione e d’intenti con se stessi. Comunicare a tutto campo col profondo è possibile. Il profondo è la parte di noi, che dove serva, pur sfidando interessi immediati da cui la parte “alta”, cosiddetta conscia, non intende staccarsi e oltre i quali non sa vedere, smuove con decisione, avendo chiaro l’esito cui andrebbe incontro la propria vita senza una fondamentale svolta e rinascita. Ciò che sembra sciagurato, la crisi, in realtà è richiamo potentissimo di questa parte profonda, per trarsi in salvo, per far tutto ciò che serve allo scopo. Una maturità di facciata, una consapevolezza di sé che spesso si sorreggono più sull’accordo e sul consenso dell’esterno che su visione fondata e propria, un senso della propria esistenza che cerca e trova sponda nell’esempio e nel modello di altri, nel "normale" comune modo di pensare e di concepire la vita, non portano certo a capire e a realizzare i propri scopi e a fare della vita la propria vita. Nel profondo di ognuno ci sono le ragioni della propria vita oltre che l’animo, la tempra e l'intelligenza adeguate per diventare individuo davvero consapevole e davvero autonomo, capace di trovare le proprie risposte, di riconoscere da sé e attraverso sè ciò che vale e perché, di capire i propri scopi e non di farseli suggerire, definire o delimitare da altro e da altri. Il lavoro su di sè guidato dal profondo, principalmente attraverso i sogni, conduce a verifiche attente e a tratti impegnative, anche dolorose sul cammino della propria crescita, a scoperte di significato nuove e inattese, lucide e feconde, portando anche chi avesse in precedenza tentato di afferrare con la sola inventiva del ragionamento nuove possibilità di espressione di sè o di percorso, senza però vero incontro e intesa con se stesso, a procurarsi ben diversa e fondata consapevolezza e conseguente autonomia, capacità di decidere della propria vita. Il dialogo quotidiano che ho col profondo da oltre trent’anni nel mio lavoro di analista, soprattutto ascoltandolo nei sogni, dove meglio il profondo dice le sue ragioni e comunica il suo pensiero, mi hanno fatto e mi fanno vedere ciò che sto dicendo. Chi ha saputo raccogliere e fare sua la proposta del proprio profondo si è reso conto, con l’avanzare dell’esperienza analitica sempre di più, di quanto fondate e valide fossero le ragioni della crisi, di quanto importanti e irrinunciabili i cambiamenti generati, aperti e resi possibili proprio da quel che all’inizio aveva vissuto solo come minaccia e calamità di cui sbarazzarsi. La risposta ideale alla crisi e alla sofferenza interna è dunque aprire dialogo vero, che significhi ascolto e comprensione di ciò che l’intimo di sé dice nel sentire e nei sogni, risorsa preziosa, di straordinario e insostituibile valore per condividere pensiero e intenzioni del proprio profondo. Capisco che non sempre la stessa psicoterapia sa muovere simili passi e offrire una simile apertura a se stessi, ma considero tutto questo che ho scritto non una sofisticheria, ma un bene essenziale di cui in molti dovrebbero fruire, per non condannarsi a rimanere scissi e di continuo timorosi del proprio intimo sentire, in guerra perenne con la propria interiorità, perdendo l’occasione di trovare, dentro e in unità con se stessi, la propria vera salvezza.

martedì 26 giugno 2018

La vera patologia

La vera patologia è trattare come assurdo e anomalo il proprio sentire, che, "colpevole" di essere scomodo e spiacevole, diverso nelle sue espressioni dalla presunta normalità, insiste interiormente, non dà tregua, non si fa zittire, non si fa problemi nel rendere accidentato il percorso d'esperienza. Esperienze interiori, non certo facili, come quelle segnate da ansia e da paure anche estreme come negli attacchi di panico, da perdita di fiducia, da senso di vuoto e di inutilità, da catene e da grovigli ossessivi o da altre espressioni del malessere interiore, tutte significative e capaci, se sapute ascoltare e intendere senza pregiudizi, di dire e di dare all'individuo apporto prezioso di consapevolezza e di avvicinamento a se stesso, finiscono in larga parte per essere trattate come fatti anomali, giudicate senza esitazioni come contrastanti le sue esigenze di buona salute, infilate in caselle diagnostiche, che si limitano  a etichettarle e a svuotarle di senso, sottolineando e stigmatizzando solo la diversità di queste esperienze interiori dalla cosiddetta normalità. In realtà, a proposito di normale condizione interiore, l'esperienza interiore di ognuno, vista senza omissioni e veli, è assai più complessa e complicata di quanto quell'idea di normalità voglia rappresentare. La normalità è in ogni caso, sia in ciò che pretenderebbe includere che in ciò che vorrebbe escludere, un mito, un criterio rozzo e statistico, una verità presunta, che concepisce la vita interiore come meccanica, come congegno che dovrebbe riprodurre cadenze e modi regolari, fisiologici. L'idea di normalità, che piega le esperienze interiori difficili e dolorose al ruolo di patologiche manifestazioni, allontanate da sè, ripudiate come se il malessere interiore fosse una presenza molesta e estranea, prodotto di un che di avverso e insano, al pari di una malattia infettiva, è un preconcetto diffusissimo, frutto di profonda ignoranza di cosa siano l'interiorità e il profondo. La conseguenza dell'andare dietro a un simile preconcetto è di perdere davvero il senno e la bussola, di lacerare il rapporto possibile con la propria interiorità, pur convinti di operare a proprio vantaggio, di fare il necessario, in situazioni di malessere e di crisi interiori, per trarsi in salvo dal rischio di perdersi. Non si comprende che quanto si muove interiormente vuole portare utilmente a convergere con se stessi, per non andare avanti in disunione e senza consapevolezza del significato e delle implicazioni del proprio procedere. Per l'interiorità, che parla attraverso il sentire, sono infatti priorità assolute quella di prendere consapevolezza, senza illusioni e mistificazioni di comodo, del proprio stato e modo di procedere, della direzione data alla propria vita, quella di porre in risalto come problema e nodo decisivi lo stato di lontananza dal proprio intimo, di non conoscenza di se stessi. La vera patologia è prendere per insano ciò che nell'intervento dell'interiorità invece è espressione di coraggioso e intelligente spirito di ricerca di verità, di volontà di spingere a aprire gli occhi, a trovare non la via dell'accomodamento e dell'adattamento a modi comuni, non la corsa verso i traguardi già segnati da mentalità e da modelli dominanti, non la tendenza a difendere la propria presunta autosufficienza e maturità, anche se fragili e illusorie, più confermate da fuori che da dentro se stessi, ma la strada della verità, del mettersi allo specchio, del riconoscere ciò che di se stessi va profondamente trasformato e costruito. C'è l'intesa con il proprio intimo sentire da trovare finalmente, c'è la formazione del proprio pensiero originale, c'è la scoperta di ciò che, aderente e corrispondente a sè e non alle pretese e alle preferenze comuni, potrebbe nascere da se stessi se coltivato con pazienza e con tenacia. La sofferenza interiore non è segno di cedimenti e di malfunzionamento, è decisamente il contrario, è consegna di consapevolezza, a condizione che la si ascolti, che la si comprenda in ciò che dice, che si smetta di liquidarla come patologia e segno di cattivo funzionamento. Prospera sulla sofferenza interiore solo il pregiudizio, l'arroganza del luogo comune, la pretesa rude di spingere avanti le cose come sempre, prendendo a calci la proposta interiore, presto cestinata e fraintesa. Quando si arriva a capire quanto saggia e provvida, affidabile e intelligente  sia la parte di sè interiore che parla e che preme nel sentire, quando, aprendo a tutto campo, come si fa in una buona esperienza analitica, il dialogo con l'interiorità, la si fa parlare non solo nei vissuti, nel sentire in tutte le sue espressioni anche le più difficili e dolorose, ma anche nei sogni, veri capolavori di intelligenza e promotori di pensiero riflessivo, acuto, penetrante e lungimirante, non stoltamente conforme, appiattito sul solito e ripetitivo, si arriva a capire l'equivoco e l'inganno madornale in cui si era caduti nel considerare nemico e malato ciò che interiormente non si sapeva capire e valorizzare. La vera patologia è l'ignoranza del significato e del valore delle vicende interiori. Senza il contributo della parte di se stessi intima e profonda si è persi e destinati solo a rincorrere docilmente l'accordo e il sostegno di altro e di altri e non la intesa e la unità con se stessi, da cui può nascere il proprio modo di concepire la vita, autonomo e lucido, la capacità di trovare le proprie risposte, i propri scopi, di raggiungere la propria pienezza di vita. Serve aiuto per non gettare e per far proprio il contributo della propria interiorità, per avvalersene. Serve l'aiuto capace di capovolgere il pregiudizio circa il significato del malessere interiore, pregiudizio che vive non solo fuori, ma anche dentro se stessi, aprendo un percorso capace di rendere via via tangibile che della propria interiorità ci si può fidare. Serve l'aiuto di chi sappia guidare a formare intesa e unità con se stessi, a coltivare capacità di ascolto e a trovare consonanza piena con la propria interiorità. La cura dev'essere finalizzata a unire il proprio essere e a valorizzare la propria esperienza interiore, onorandola nel suo vero significato e valore e non a confermare, come non poche forme di cura, farmacologiche e psicologiche fanno, la divisione da se stessi, lo stato di diffidenza e di belligeranza col proprio intimo e profondo.

domenica 27 maggio 2018

Idee tanto diffuse quanto improprie

Il confronto con se stessi richiederebbe capacità di ascolto, di intendere il senso e le ragioni del proprio interlocutore, in questo caso del proprio interlocutore interno. Viceversa è abituale la risposta di intolleranza e di pregiudizio, di giudizio liquidatorio, che, senza dubbi e esitazioni, decreta che il sentire doloroso e arduo è esperienza negativa, anomala, un che di fortemente sgradito e considerato nocivo, sul cui conto già si scarica ostilità e diffidenza, ancor prima di conoscerne le intenzioni e la proposta. Appiattiti sull'idea dell'esistenza di un normale e fisiologico modo di procedere, sostenuti dalla persuasione che gli altri viaggino senza ostacoli interiori e spensierati, ben compatti nell'avanzare convinti e soddisfatti, in ogni caso senza pene e crucci così pervasivi e condizionanti, senza essere coinvolti in modo così intenso da vicissitudini interne, ci si dispone subito alla guerra senza ma e senza se contro parte di se stessi intima che insiste con tensioni e ansietà, con vissuti di scoramento e assenza di fiducia, con paure che non demordono. La farmacia e l'infermeria dei rimedi per sanare e sistemare il "disturbo" sono sempre aperte. L'idea e la pratica diffuse della cura come proposito di eliminazione del carico interiore “negativo”, come tentativo di correzione, di risanamento e di bonifica delle negative e nocive, presunte tali, esperienze interiori, non fanno che confermare e rendere ancora più persuasi che la lotta per mettere a tacere o per rimettere in riga e al dritto l'esperienza interiore disagevole sia una guerra giusta, ovvia, senza discussione. Ci può essere in alcuni l'idea che il malessere interiore non sia casuale, che non si proponga invano e inutilmente, senza fondamento, che possa indicare l'esistenza di un problema. Il problema è subito però collocato all'esterno, in qualcuno o in qualcosa che non va, che non è compatibile, con cui non c'è quel che dovrebbe esserci per stare bene. L'idea che il passato soprattutto o il presente non abbiano dato ciò che avrebbero dovuto o che dovrebbero è ricorrente. Che ci sia un problema di lontananza da se stessi, di dissociazione, cioè di mancata unità, di mancate capacità e volontà di intesa e di accordo con la propria interiorità, di modo di vivere che va più secondo guide e soluzioni esterne e già concepite che secondo propria visione e consapevolezza, mai cercate e generate, non sfiora pressoché nessuno. L'interlocutore interno, la propria interiorità preme e non dà tregua non per caso, dice e solleva con forza nel malessere la questione della condizione fragile e inconsistente in cui si è anche a dispetto di ciò che si presume, condizione in cui, senza guida interna, senza autonomia vera, che scongiuri il pericolo di contrarre dipendenza da idee comuni, da qualcosa e da qualcuno cui affidare il compito di essere risposta valida e risolutiva alle proprie aspirazioni e necessità, farsi portare e legarsi a guide esterne, pur con l'illusione di dire la propria e di dirigersi da sè, diventano pratica fatale già sperimentata e tendenza incombente. Il comune modo di intendere la vita e di procedere rischiano di essere i soli riferimenti e le guide, gli indicatori su come fare per procedere, per dare compimento e sviluppo alla propria vita o per trarsi in salvo dal pericolo di rimanere soli e tagliati fuori. La solitudine come incubo del vuoto, dell'emarginazione, dell'inaridimento, della perdita di contatto con la cosiddetta realtà e con le opportunità che offrirebbe e ritenute essenziali, diventa lo spauracchio e lo stimolo a fuggire da se stessi, il pericolo da scansare, piuttosto che quello della propria mancanza di unità viva con se stessi e di radici, di scoperte di significato, di convinzioni fondate e vere. Non c'è vita in realtà se non si attinge a se stessi, se non si trova incontro col proprio interlocutore interno, capace di dare impulso e materia viva (come sa fare nel sentire e nei sogni soprattutto) alla scoperta di chi si è, alla formazione di  pensiero e di convinzioni proprie fondate e vive e non appiccicate come con i ragionamenti e con le ideologie. Il malessere interiore è la presa di posizione forte dell'interlocutore interno, che vuole che la priorità sia ritrovarsi e concepire il proprio, vederci chiaro su come si sta procedendo, senza travisamenti e persuasioni di comodo, senza rinvii. Nulla è più salutare del vederci chiaro e del trovare unità di intenti e di visione con se stessi, del trovare proprie risposte e passione di vivere convintamente secondo se stessi. Il negativo, presunto, del malessere che sarebbe ostile o semplice richiamo per cambiare in fretta all'esterno qualcosa o qualcuno è un teorema, l'insistere da parte propria, pur sostenuti da mentalità comune e da non poco diffuse teorie e prassi di non pochi curanti, nel ribadirlo è il vero limite e fonte di danno per se stessi, la vera disfunzione e anomalia.

domenica 11 febbraio 2018

La concezione piatta

Le probabilità, dentro un'esperienza di sofferenza interiore, di pensare subito al rimedio, al modo per superare ciò che, senza dubbi e esitazioni, è inteso soltanto come uno stato negativo da correggere, sono elevatissime. Sembra risposta sorretta da argomenti ovvi e inconfutabili. Si dà per scontato che ciò che si sta provando sia il rovescio di ciò che sarebbe auspicabile e normale. Gli stessi tecnici della cura e esperti della psiche sono pronti, non certo in pochi, a offrire soluzioni per mettere le cose a posto, vuoi prescrivendo farmaci, vuoi offrendo tecniche d'aiuto che vorrebbero togliere e sostituire ciò che è penoso e che non permette di procedere a cuor leggero, con qualcosa di più felicemente positivo e funzionale a ritrovare quello star bene che si ha pena d'aver perso o di non aver mai raggiunto. Terapie che vorrebbero risistemare le cose, togliere le spine nel fianco, sconfiggere modi di reagire e di sentire giudicati disfunzionali, che farebbero solo danno, che non avrebbero scopo utile e nulla di valido da dire, che non saprebbero far altro che creare ostacoli e limitazioni, pene inutili e superflue. Sarebbero solo il residuo di modi sbagliati di vedere e di pensare, insomma scorie e difettosi modi di funzionare, casomai dettati da cattivi condizionamenti educativi e culturali o da adattamenti a situazioni sfavorevoli divenuti via via sconvenienti e controproducenti. Questo modo di leggere l'esperienza interiore è conforme e parte di una visione dell'individuo tutta a senso unico di marcia e piatta. Se non si sta in buon equilibrio apparente, se non si procede in modo sciolto e senza freni e ostacoli interni, bisogna adoperarsi per correggere gli attriti e le disfunzioni, perché tutto giri a meraviglia. L'individuo deve usarsi al meglio e esprimersi come serve per stare in buona armonia con l'esistente e con le idee di normalità e di buon funzionamento comuni e prevalenti, questa la regola e il principio della concezione piatta. La vita fatta e concepita con prioritario e unico riferimento all'esterno, all'esistente, all'insieme organizzato e pensato, confermandone, passivamente, il disegno, il linguaggio e i significati, rendendo cruciali, essenziali i legami con altro e con altri, consacrando il tutto come "la realtà", da non perdere mai di vista e con cui non perdere mai contatto pena il rischio di sentirsi persi, psicologicamente come senza guida e senza risorse, senza ossigeno da respirare, tutto questo delimita e consente, senza alternative, la concezione piatta. Che l'individuo abbia facoltà e necessità irrinunciabile, pena il rischio di non esistere come soggetto, di vedere in proprio e riflessivamente (come guardandosi allo specchio) ciò che sta facendo di se stesso, di cercare risposte su ciò che è come individuo unico e originale e non fatto in serie, su ciò che porta dentro se stesso, risposte non certo già confezionate e a pronto uso, ma da trovare, è questione e esigenza fondamentale che spesso sfugge. Sfugge la necessità di crescita personale, di sviluppo di autonomia non di facciata, ma sostanziale e vera, che implica scoprire ciò che secondo se stessi e riconosciuto con i propri occhi ha senso e valore, senza farsi imbeccare e imboccare da idee già pronte e in corso, ma attingendo e mobilitando tutto il proprio potenziale interiore, lavorando con attenzione, di concerto con la propria interiorità, sulla propria esperienza, attivando il proprio sguardo e capacità di ricerca. Ciò che più profondamente si sarebbe inclini a amare e a desiderare di far vivere, ciò che davvero darebbe senso, valore e pienezza alla propria vita può rimanere sepolto, inaccessibile, tirando dritto e seguendo la concezione piatta dell'esistenza e delle possibilità che concede. Cercando di zittire col malessere interiore anche la pressione della propria interiorità a prendere visione del proprio vero stato e di se stessi, a sviluppare finalmente la consapevolezza che finora non ci si è curati di formare, si finisce per pensare e per muoversi nell'unica direzione che la visione piatta a senso unico consente. Che l'individuo sia fatto oltre che di una superficie di volontà e di capacità di pensiero razionale (che lavorando da solo, senza la guida del sentire, più spesso di quanto non si creda, nella conoscenza di se stessi, ricalca e rigira il già conosciuto, copre la verità anziché svelarla) anche di una parte profonda, di gran peso e presenza, che nel sentire parla di continuo e spinge al vero, che nei sogni offre occasioni di pensiero assai vicino e corrispondente a se stessi, non ripetitivo di altro, aperture lucidissime di sguardo riflessivo attento e affidabile, tutto questo sembra ignorato. Sembra ignorato e sembra stare fuori dalla visione e dalla concezione sia di chi sente malessere e che è alle strette con i richiami e con le pressioni della sua parte profonda, sia di chi, non in piccola schiera, si offre come terapeuta. La visione piatta vuole che tutto giri in un'unica direzione, nel verso del buon regolare funzionamento, ignorando che il complicarsi della vicenda interiore è espressione di un intervento della parte profonda che non vuole tacere, che vuole richiamare l'individuo al compito di capirsi e di capire dove sta conducendo la sua vita e dentro quali vincoli e modalità, di prendere atto di quanto ignora ancora di se stesso e non ha ancora formato come capacità di vedere e di concepire a modo proprio. Altro che disfunzioni! Ansia, attacchi di panico, fobie o cadute depressive, grovigli ossessivi, tutte queste espressioni della vita interiore hanno da dire e da richiamare a compiti di presa di coscienza e di uscita da un modo inconsapevole, passivo, uniforme con altro, incapace di mettere d'accordo il proprio pensare e il proprio sentire, un modo spesso perdente e vano di spendere la propria vita, a dispetto delle apparenze e del conforto di opinioni esterne a sé. Nel rapporto con la propria esperienza interiore, nel modo di considerarla e di trattarla, c'è necessità di liberarsi da automatismi di pensiero e di risposta, non importa se ampiamente condivisi, che accecano e che portano lontano da se stessi, c'è necessità di affrancarsi da una concezione piatta di se stessi e della propria vita, che accredita e che spinge verso un presunto star bene, che umilia il proprio essere anziché esaltarlo.

domenica 28 gennaio 2018

La triste sorte

E' davvero triste la sorte di chi, coinvolto in una difficile e sofferta esperienza interiore, convincendosi di essere portatore soltanto di un disturbo, tratta ciò che sente e che vive interiormente come malattia, come peso di cui liberarsi e si infila in percorsi conseguenti dove presunti curanti, che della vita interiore e dei sui modi di esprimersi, del senso e dello scopo di un malessere interiore spesso e volentieri non sanno nulla, sono pronti a stilare diagnosi, che vorrebbero chiarire e definire ciò che l'individuo vive dentro se stesso e che non sono altro che caselle con relativa etichetta dentro cui infilare ciò con cui non hanno capacità di mettersi in rapporto. Curanti che prima che di altri non si sono presi cura di se stessi, che non hanno cercato incontro e dialogo con la propria interiorità, che senza apertura e lavoro su se stessi dell'esperienza interiore non hanno imparato a comprendere nulla, che si solo bevuti teorie e tecniche con relativo manuale d'uso, che girano sull'altro, girando i loro limiti di visione stretta, che concepisce solo normalità e disfunzione contrapposti, che riconosce reale solo ciò che è esterno e già dato. Com'è triste la sorte di chi affidato a questo tipo di curanti, purtroppo non rari, mosso da impazienza di risolvere e di tornare a correre o perlomeno a rimanere in  movimento sul binario della normalità e del consueto, comincia a ingurgitare farmaci, a seguire i dettami di qualche terapeuta per correggere ciò che senza indugi è giudicato modo errato e dannoso di sentire e di reagire, rafforzando così soltanto il pregiudizio e l'insofferenza verso parte intima di se stessi, alimentando diffidenza e paura verso la propria interiorità! E' triste sorte porsi in fuga e in urto con se stessi, combattere come presenza nemica ciò che interiormente è tutt'altro che guasto e cattivo funzionamento, che, se saputo comprendere, sarebbe base viva e feconda per entrare nella conoscenza di se stessi, nella comprensione del vero. E' triste sorte maledire come impedimento al vivere ciò che invece, se saputo intendere, è spinta e pressione a formare e a costruire l'essenziale e l'irrinunciabile che manca a se stessi e che non ci si è mai curati di coltivare e di formare. Vivere senza consapevolezza del proprio modo di procedere, senza conoscenza di se stessi, vivere senza pensiero proprio, seguendo e consumando altro, idee, stili di vita, percorsi già segnati, attribuzioni di significato e di valore già stampati e convalidati da uso comune, vivere inseguendo consenso esterno, cercando le opportunità tutte fuori e stringendo i legami solo con altro e con altri, senza avere capacità di legarsi a se stessi, di scoprire e di generare il proprio, senza capacità di stare su da soli, è condizione tutt'altro che rara, è condizione spesso camuffata e volentieri ignorata, nascosta ai propri occhi. Ai propri occhi camuffata da una parte di se stessi, non certo dalla parte profonda, che non ignora cosa significhi e implichi. Stare al passo con altri e con altro che fuori la racconta, limitarsi a consumare qualcosa che, pur in apparenza consono, è già concepito e pronto, che anche se riplasmato dal proprio ragionamento rimane pensiero preso in prestito e rimasticato, è realtà e modo di vivere così presente e diffuso, ampiamente ritenuto normale quanto non accettato e dato per scontato dalla parte profonda di se stessi, che giustamente, che saggiamente lancia l'allarme. Il profondo, che regola e movimenta la vicenda interiore, usa mezzi idonei per sollevare e dare percezione forte e viva del problema (ansietà, attacchi di panico, cadute depressive ne sono un esempio), per far percepire la fragilità dei propri punti veri di appoggio e di riferimento, l'estrema esilità del contatto e della connessione con se stessi, con la propria vita interiore, la mancanza di basi e di ragioni valide per nutrire  fiducia in se stessi e autostima, a dispetto dell'apparente consistenza e possesso di idee, di realizzazioni e di risposte proprie, a dispetto di apparente maturità e autonomia già acquisite. Questa parte profonda e ciò che propone rimane spesso completamente incompreso. La beffa è che la risposta più frequente ai richiami interiori, a ciò che l'interiorità saggiamente e provvidenzialmente consegna, che vorrebbe essere il richiamo a prendere visione del vero della propria condizione e del proprio modo di procedere, a aprire con coraggio il cantiere del cambiamento, colmando prima di tutto la distanza che separa dalla propria vita interiore, imparando a ascoltare e a dialogare con la propria interiorità, per formare su queste basi pensiero, progetti e scelte proprie, non indirizzate e al seguito d'altro ma corrispondenti a se stessi, la risposta è di trattare la propria interiorità come fosse in stato anomalo, in stato di patologia. E' triste sorte quella di combattere come nemico e come segno di inadeguatezza e di malattia ciò che invece, se corrisposto e compreso, avrebbe capacità di condurre a aprire gli occhi e a generare il proprio. E' triste sorte infilarsi per tempo indefinito nella battaglia sciocca contro parte di se stessi, negando credito e cercando di non dare scampo alla propria interiorità, giudicata cattiva presenza da mettere a tacere, rimanendo dannati nello stallo di una cura, che anzichè essere vera cura, volontà e passione di aprire a se stessi, diventa morsa stretta sul proprio essere, bavaglio che soffoca la voce interiore, che la ripudia, che la tratta come scarto di cui sbarazzarsi. Sarebbe possibile, cercando valido aiuto, aprire a se stessi, imparare a ascoltare e a comprendere la voce della propria interiorità in ciò che dice nel sentire e nei sogni, imparando con la sua guida a conoscere davvero e senza preconcetti, a rispettare e a amare tutto il proprio essere, ma ci si dà troppo spesso la  triste sorte di perseguire con perseveranza solo il rifiuto e la paura di se stessi.

domenica 21 gennaio 2018

L'equivoco del rimedio naturale

Chi non intende che ciò che sta provando, pur insolito, doloroso, disagevole, ha un senso, che non è patologia da sanare, ma che racchiude una proposta e un potenziale utile e necessario da imparare a comprendere e a valorizzare, cerca con affanno e con ostinazione un modo e un mezzo per mettere a tacere, per sbarazzarsi di ciò che considera solo un danno per se stesso. Convinto di prendersi in questo modo cura di se stesso e di difendere i propri interessi, cerca qualcosa che agisca per zittire e per dissolvere possibilmente ciò che interiormente considera solo un disturbo, una alterazione che comprometterebbe il suo buon vivere e "normale". La stessa ricerca delle cause del malessere interiore è una delle opzioni nella ricerca dei rimedi, concepiti per venir fuori da una condizione disagevole. Pare scelta più lungimirante e aperta del ricorso a armi chimiche, farmacologiche impiegate per combattere e per mettere a tacere il malessere, ma muove sempre dall'idea, meglio sarebbe dire dal pregiudizio, che ciò che l'individuo sta vivendo interiormente di arduo e disagevole sia uno stato anomalo e negativo, che va ricondotto a una causa, a un fattore sfavorevole, a un cattivo condizionamento, a un trauma, che avrebbe provocato un guasto e compromesso il normale e fisiologico sviluppo. Pare scontato che le cose stiano così e tutta un'offerta di cure asseconda e alimenta questa idea, l'infermeria sociale che si propone di curare i disagi interiori offre e suggerisce mille rimedi, chimici di sintesi o naturali, psicologici. Il rimedio cosiddetto naturale pare a molti più benevolo e rassicurante, meno rudemente estraneo e minaccioso di effetti, più o meno collaterali, dannosi del farmaco. Cosa c'è in questo ricorso a prodotti e mezzi naturali di davvero naturale e nel rispetto della propria natura? Per chi si sta confrontando con un'esperienza interiore difficile sarebbe assai utile e opportuno frenare la propria corsa, condotta con affanno e con ostinazione, alla ricerca dell'arma che debelli il presunto male, sarebbe importante non cadere nell'illusione che ci sia arma meno rischiosa e più buona ricorrendo a rimedi cosiddetti naturali piuttosto che farmacologici. Nelle intenzioni e nell'atteggiamento di chi ne fa uso si tratterebbe infatti in ogni caso di porsi in urto ostile con la propria esperienza interiore, facendo leva su un rimedio, su un'arma, naturale o sintetica che sia, per neutralizzare e togliere di mezzo ciò che sta provando. E' importante non dare per scontato nulla, è fondamentale interrogarsi su ciò che il proprio malessere è realmente e può valere, su ciò che significa e propone, anche se al momento impreparati e senza mezzi per ascoltarsi e per capire il linguaggio interiore. Solo così si potrà valutare attentamente in cosa consista prendersi davvero cura di se stessi, cosa sia fare il proprio bene e interesse. Solo uscendo da facili luoghi comuni si potrà comprendere quale sia la risposta o se vogliamo usare il termine rimedio, quale sia il rimedio davvero naturale. La risposta più naturale al malessere e alla crisi, che rispetti la propria natura e che la assecondi, che non alimenti dissociazione e conflitto con la parte intima e profonda di se stessi, che favorisca l'unità del proprio essere, che scaturisca da se stessi e che non si avvalga di altro e estraneo, è la conquista e l'esercizio da parte propria della capacità riflessiva, della capacità di accogliere e di riconoscere in ciò che si sente, che si prova interiormente l'originale e vero significato e la proposta. Può servire un valido aiuto non già per combattere e per eliminare, per sradicare il malessere come scopo primario, bensì per imparare a ascoltarsi, a entrare in rapporto e a raccogliere l'intima proposta del proprio sentire. Non c'è nulla di peggio, non c'è peggior danno alla propria natura del porsi in contrasto, del cercare di eliminare, di far fuori ciò che la propria parte vitale profonda sta dicendo a se stessi attraverso il vissuto, di considerare pregiudizialmente nemico il proprio sentire, non importa se disagevole e in apparenza, solo in apparenza, sfavorevole o nocivo. Può accadere che ciò che si sente intralci il modo consueto di procedere, che la parte profonda di se stessi soprattutto all'inizio, per incidere, per farsi ascoltare, per spingere a occuparsi di se stessi e della propria sorte, per spingere a lavorarci sopra, blocchi o riduca la funzionalità dell'agire, dell'andare, del fare, che renda il proprio quadro interiore niente affatto godibile e tranquillo. Ciò però non significa che l'intervento del profondo, che quanto si sta interiormente vivendo, vada contro i propri interessi più veri e profondi. Se si sviluppasse, con l'aiuto adatto, capacità riflessiva, capacità cioè di vedere l'intimo volto e di riconoscere l'autentico significato di ciò che si sta provando, di capire cosa il proprio sentire sta dicendo e spingendo a vedere, a conoscere, non si trarrebbe certo danno da simile rapporto e si scoprirebbe che c'è tanto di nuovo di se stessi da comprendere per non perdere di vista ciò che per sè più conta. Il normale procedere, che tanto si teme di perdere e che il malessere interiore sembra intralciare e compromettere, è spesso infatti forma di pensiero e di procedere imitativa d'altro, presa in prestito e non coerente con se stessi, rischia di essere forma vuota e non ricca di sè di condurre la propria vita, più in armonia con altro e con altri che con se stessi. Il rimedio più naturale al malessere e alla crisi interiore è recuperarne il potenziale, è farne tesoro, è comprenderne e assecondarne gli intenti e i pungoli di crescita e di trasformazione nel verso del conoscere e del diventare se stessi. Viceversa la corsa al rimedio, che sia farmacologico o naturale poco importa, inteso e usato come mezzo per tentare di spegnere e di spazzare via ciò che difficile e disagevole si sente, anche se ritenuta utile e positiva, è in realtà scelta lesiva della possibile intesa e unità con se stessi, distruttiva di ciò che potrebbe nascere e crescere dall'incontro e dal dialogo con la propria interiorità che quel sentire propone, è scelta innaturale, diretta contro la propria natura.